domenica 6 maggio 2012

L'Albero della Vita




La maledizione che ci grava addosso pesava già sul nostro antico progenitore, molto prima che egli si volgesse verso l’ albero della Conoscenza. Insoddisfatto di sé, lo era ancor più di Dio, che egli invidiava senza esserne consapevole; lo sarebbe divenuto grazie ai buoni uffici del tentatore, coadiutore, piuttosto che autore, della sua rovina. Prima, viveva nel presentimento del sapere, in una scienza che ignorava se stessa, in una falsa innocenza, propizia all’esplodere della gelosia, vizio generato dal contatto con chi è più fortunato di noi; ora, il nostro progenitore frequentava Dio, lo spiava ed era da lui spiato. Non poteva derivarne niente di buono.  «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».  L’avvertimento dall’alto si rivelò meno efficace dei suggerimenti dal basso: migliore psicologo, il serpente trionfò. L’uomo, del resto, non chiedeva che di morire; volendo uguagliare il suo Creatore nel sapere anziché nell’immortalità, non aveva alcun desiderio di raggiungere l’albero della Vita, non gli interessava affatto; e di questo Yavèh parve rendersi conto, giacché non gliene proibì neanche l’accesso: perché temere l’immortalità di un ignorante? Se l’ignorante avesse mirato a entrambi gli alberi e fosse entrato in possesso sia dell’eternità sia della scienza, allora sì che tutto sarebbe cambiato. Non appena Adamo assaggiò il frutto incriminato, Dio, comprendendo alfine con chi aveva a che fare, perse la calma. Mettendo l’albero della Conoscenza in mezzo al giardino, vantandone i meriti e soprattutto i pericoli, commise una grave imprudenza, anticipò il desiderio più recondito della creatura. Proibirgli l’altro albero sarebbe stata una tattica migliore. Se non lo fece, fu perché sapeva senza dubbio che l’uomo, aspirando subdolamente alla dignità di mostro, non si sarebbe lasciato sedurre dalla prospettiva dell’immortalità in quanto tale, troppo accessibile, troppo banale: non era essa la legge, lo statuto stesso del luogo? La morte, invece, ben altrimenti pittoresca, e investita del prestigio della novità, poteva incuriosire un avventuriero, disposto a rischiare per essa la propria pace e la propria sicurezza.  Pace e sicurezza abbastanza relative, è vero poiché il racconto della caduta ci permette di intuire che, pur nel cuore dell’Eden, il promotore della nostra razza doveva sentire un certo malessere: non si riuscirebbe a spiegare, altrimenti, la facilità con cui cedette alla tentazione. Vi cedette? Piuttosto la invocò. In lui si manifestava già quell’inattitudine alla felicità, quell’incapacità di sopportarla che abbiamo tutti ereditato. Egli l’aveva sottomano, poteva farla sua per sempre; la respinse, e da allora la inseguiamo senza ritrovarla; e anche se la ritrovassimo, non ci adatteremmo ad essa meglio di allora. Che cos’altro aspettarsi da una carriera iniziata con un’effrazione alla saggezza, con un’infedeltà al dono d’ignoranza che il Creatore ci aveva elargito?  Precipitati nel tempo dal sapere, fummo simultaneamente dotati di un destino. Giacché non v’è destino se non fuori del paradiso.


(E.M. Cioran da La caduta nel tempo -  L’Albero della vita)








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