giovedì 31 ottobre 2019

Una volta amai una gatta



[
x Stella]



io una volta amai una gatta
anche lei mi amava
e mi dormiva morbida sulla pancia
e mi faceva le fusa negli orecchi

ci raccontavamo i segreti
e giocavamo sempre assieme
giocavamo all’aereo
giocavamo al sentiero di croccantini
giocavamo ai cunicoli nel letto
giocavamo a nascondarella e ad acchiapparella
giocavamo al domatore di leoni
giocavamo all’addestratore di cani antidroga
giocavamo agli agguati

la mattina le preparavo la colazione
e la sera l’accoglievo nel mio letto
e se non la facevo entrare nella camera
lei stava fuori a grattare con le unghie

adorava leccarmi il naso
e una volta me lo morse
ma non per cattiveria

aveva gli occhi azzurri
e una coda lunga e nera
profumava tantissimo

spesso mi diceva che dovevo prepararmi
che un giorno lei non ci sarebbe stata più
io le dicevo che non era vero
lei mi diceva che le gatte vivono meno dei bambini
io le dicevo che era scema
lei mi strofinava il muso sulla fronte

una volta la portai a scuola
per farla conoscere ai miei compagni
ci divertimmo molto
era una gatta socievole e paziente

una volta le chiesi se
quando fossi diventato grande
sarebbe voluta diventar mia sposa
lei mi disse che si sentiva onorata
e mi strusciò la schiena sulla faccia

dovetti portarla io, in taxi, a morire
perché mia mamma era troppo disperata
stetti con lei carezzandole la testa
fino alla fine

da allora
e per sempre, credo
io m’innamoro solo
di femmine che in verità son gatte
in verità son gatte
loro non è che lo sanno sempre
ma lo sono

Guido Catalano






Mio cuore



Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.
E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.
E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno
quando gli ultimi passi si allontanano
dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.
E poi sono dieci anni, dottore,
che non ho niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.
È per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclérosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho quest’angina pectoris…
Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana

Nazim Hikmet, Angina pectoris






mercoledì 30 ottobre 2019

martedì 29 ottobre 2019

Questa è la caccia












L'orologio



Preambolo alle istruzioni per caricare l’orologio

Pensa a questo: quando ti regalano un orologio, ti regalano un piccolo inferno fiorito, una catena di rose, una cella d’aria. Non ti danno soltanto l’orologio, tanti, tanti auguri e speriamo che duri perchè è di buona marca, svizzero con àncora di rubini; non ti regalano soltanto questo minuscolo scalpellino che ti legherai al polso e che andrà a spasso con te. Ti regalano –non lo sanno, il terribile è che non lo sanno-, ti regalano un altro frammento fragile e precario di te stesso, qualcosa che è tuo ma che non è il tuo corpo, che devi legare al tuo corpo con il suo cinghino simile a un braccetto disperatamente aggrappato al tuo polso. Ti regalano la necessità di continuare a caricarlo tutti i giorni, l’obbligo di caricarlo se vuoi che continui ad essere un orologio; ti regalano l’ossessione di controllare l’ora esatta nelle vetrine dei gioiellieri, alla radio, al telefono. Ti regalano la paura di perderlo, che te lo rubino, che ti cada per terra e che si rompa. Ti regalano la sua marca, e la certezza che è una marca migliore delle altre, ti regalano la tendenza a fare il confronto fra il tuo orologio e gli altri orologi. Non ti regalano un orologio, sei tu che sei regalato, sei il regalo per il compleanno dell’orologio.

Julio Cortazar, Storie di Cronopios e di Famas 

 










lunedì 28 ottobre 2019

martedì 22 ottobre 2019

lunedì 21 ottobre 2019

sabato 19 ottobre 2019

Legion













Touch









Educazione



L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti

Hannah Arendt









venerdì 18 ottobre 2019

Dashrath Manjhi


La storia arriva dalla città di Gaya, più precisamente dal sobborgo di Gehlaur, più precisamente ancora dal quartiere di Atri. Qui, nel 1934 nacque un certo Dashrath Manjhi, e questa è la sua storia.
All’epoca, a Gehlaur, il quartiere di Atri e quello di Wazirganj, distanti in linea d’aria poco più di un chilometro, erano separati da un’alta montagna, che costringeva chi doveva spostarsi da un punto all’altro a camminare per oltre 70 chilometri per aggirare l’ostacolo, oppure a provare a passare in mezzo, scalando da un lato e ridiscendendo dall’altro.
Un giorno la moglie di Dashrath Manjhi deve andare da Atri a Wazirganj: prova a passare in mezzo alla montagna, cade, si fa male. È viva per miracolo. L’uomo capisce che così non si può andare avanti, che quella piccola comunità rurale deve risolvere quel problema, seppure sia praticamente senza mezzi.
Dashrath Manjhi non si perde d’animo, e decide di arrangiarsi con quello che ha: tempo libero (lavora nei campi dalle 8 alle 13 circa), tanta forza di volontà e le sue mani. Mani che arma con martello e scalpello, con cui decide di scavare un passaggio in mezzo alla montagna. Letteralmente.
È un giorno non precisato del 1960, ma non ha importanza che giorno sia, perché l’impresa di Manjhi dura talmente tanto che le date perdono significato: ogni giorno, tutto il giorno, spesso anche la notte, si piazza alla base della montagna e incomincia a scavare. E va avanti per 22 anni.
Va avanti sino a quando arriva a Wazirganj, senza camminare oltre 70 chilometri, senza scalare nessuna montagna, ma letteralmente bucandola: in 22 anni, Dashrath Manjhi riesce a creare dal nulla una “strada” lunga 110 metri e larga 9, sufficiente per permettere il passaggio di persone, animali e carri. Praticamente da solo, tranne che negli ultimi anni, quando i suoi increduli concittadini capiscono che la sua impresa può avere davvero successo.
Manjhi è morto il 17 agosto del 2007, ma il suo lavoro parla per lui: la strada che ha scavato è addirittura visibile dal satellite e si riconosce senza problemi sulle mappe di Google Maps.








Mothers









giovedì 17 ottobre 2019

Occidente



Occidente...
Luogo da cui non giunge suono
Luogo perduto ormai... 









 









Asilo












martedì 15 ottobre 2019

Soltanto



Di tutto il nostro mondo assolato
desidero soltanto una panchina in un giardino
dove un gatto prende il sole
Là vorrei sedermi
con una lettera nascosta in seno
una sola piccola lettera.

Edith Södergran












lunedì 14 ottobre 2019

Una storia



Questi criminali, figlia, che entrano nelle case e annientano gli uomini e le cose degli uomini, annientano anche in noi, in quelli che per puro caso continuano a vivere, quella trama delicata e volubile che stavamo ordendo in tempi meno bestiali e che ci formò come umani. Io cercavo una storia, figlia, quarant’anni fa io andavo alla ricerca di una storia che avesse una tranquilla trama quotidiana, però al tempo stesso lasciasse filtrare, come un tenue bagliore, la follia, la ferocia e la magia che segretamente incoraggiano gli atti degli uomini. Ma loro hanno raso al suolo l’intera fragile trama. Per chi di noi non era cieco, l’impulso poetico e la vena comica, la voglia di cambiare il mondo, l’amore con cui nelle cucine si preparano piatti aromatici, l’amore, ah, l’amore, tutto scomparve, soppiantato brutalmente dall’indignazione e dalla paura. Ci hanno distrutto, figlia, spezzandoci nel pieno della vita. Eppure arde, dentro tutti noi, i vivi e quelli sul punto di morire, dentro di noi arde il desiderio della vita. Piena e complessa e contraddittoria come deve essere la vita. Lascia che arda, figlia, tra gli interstizi dell’orrore e contro i servi della morte 
 
Liliana Heker, La fine della storia
 





 









sabato 12 ottobre 2019

Nobel Pace



Chi oggi festeggia perché il premio Nobel per la Pace non è stato consegnato a Greta Thunberg dovrebbe soffermarsi un istante a guardare questa foto.

L'uomo inginocchiato con le mani nel terreno è colui che il Nobel per la Pace lo ha vinto al posto di Greta: il primo ministro dell'Etiopia Abiy Ahmed Ali. E quello che sta facendo in questa foto del 29 luglio scorso è piantare uno dei 10 miliardi (miliardi) di alberi che ha deciso di disseminare lungo tutto il suo paese.
Quel giorno 23 milioni di suoi connazionali, da Nord a Sud dell'Etiopia, hanno piantato 353 milioni 633 mila e 660 alberi in 12 ore. Sotto il sole e sotto la pioggia. Contro il riscaldamento climatico.
Abiy Ahmed Ali ha imboccato dopo decenni di conflitti la strada della pace con l'Eritrea, ha liberato prigionieri politici, perseguito chi violava i diritti umani, mediato sul conflitto in Sudan.
Ma ha anche piantato con tutto il suo paese 350 milioni di alberi in un solo giorno (record mondiale), per ricreare nel suo paese il patrimonio forestale che l'uomo e il cambiamento climatico hanno distrutto, portando desertificazione, sete, conflitti, fame e morte.
Oggi il Nobel è stato vinto da un uomo portatore di Pace. Ma è stato vinto anche da un uomo portatore di un messaggio, quello contro il riscaldamento globale, le cui conseguenze il proprio popolo ha vissuto e vive sulla propria pelle.
Quindi no, Greta non ha vinto il Nobel per la Pace. Ma le mani che lo riceveranno, quelle di Abiy Ahmed Ali, sono le stesse che ne hanno portato e ne portano il messaggio. La sola cosa che conti davvero.







venerdì 11 ottobre 2019

Nobel Letteratura



Questo cinghiale è solo uno, continuai, ma quell’alluvione di carne macellata che cade quotidianamente sulle città come un’apocalittica pioggia senza fine? Quella pioggia annuncia massacri, malattie, la follia collettiva, l’eclisse e l’inquinamento della Mente, perché nessun cuore umano è in grado di sopportare tanto dolore. Tutta la complicata psiche umana si è sviluppata per non consentire all’Uomo di comprendere ciò che vede veramente. Perché la verità non lo raggiunga, avviluppata nelle illusioni, nelle chiacchiere vuote. Il mondo è un carcere pieno di sofferenza, costruito in modo tale che per sopravvivere bisogna procurare dolore agli altri. Avete sentito? Ma che mondo è questo? Il corpo di qualcuno convertito in scarpe, in polpette, in wurstel, in uno scendiletto, in un brodo di ossa da bere… Le scarpe, i divani, la borsa da spalla fatta con il ventre di qualcuno, riscaldarsi con la pelliccia altrui, mangiare il corpo di qualcuno, tagliarlo a fette e friggerlo nell’olio… Ma è possibile che avvenga davvero questo orrore, questa ecatombe, crudele, insensibile, meccanica, senza alcun rimorso di coscienza, senza la più piccola riflessione che invece si concede generosamente a raffinate filosofie e teologie? Che mondo è quello in cui è norma uccidere e causare dolore? Forse non siamo del tutto a posto?

Olga Tokarczuk, Nobel per la letteratura 2018





martedì 8 ottobre 2019

Ghosteen



Please, take care of yourself. Seek out beautiful things, inspirations, connections and validating friends. Perhaps you could keep a journal and write stuff down. 
The written word can put to rest many imagined demons. Identify things that concern you in the world and make incremental efforts to remedy them. At all costs, try to cultivate a sense of humour. See things through that courageous heart of yours. Be merciful to yourself. Be kind to yourself. Be kind.
With love, Nick








venerdì 4 ottobre 2019

giovedì 3 ottobre 2019

Glass












Dove vanno i gatti




Mamma, ma i gatti dove vanno quando muoiono?
I gatti quando muoiono vanno nel paradiso delle crocchette che è un posto scoppiettante. Hai presente quelle macchine che al cinema fanno i pop corn?
Si, quelli che si mangiano e sembrano nuvole?
Esatto, proprio quelli. I gatti vanno in un posto in cima alle nuvole dove scoppiettano crocchette puzzolenti che però a loro sembrano profumatissime e gli fanno venire l’acquolina in bocca. Dalle nuvole escono le loro crocchette preferite e loro saltellano tutti insieme. E poi questo paradiso è pieno di gomitoli di lana che ai gatti piacciono molto, così ci giocano un sacco e fanno le fusa. Il paradiso delle crocchette è un posto pieno di fusa. Loro pensano ai loro amici umani e fanno tante, tante fusa d’amore.
Si, e poi un giorno prendono una nuvola con le zampette e la aprono come fosse una valigia. Le nuvole sono le valigie, nel paradiso dei gatti. Ci mettono dentro dei pezzettini di cielo che hanno ritagliato con le forbici dei piccoli per fare i collage e di notte partono.
E dove vanno la notte?
Di notte loro vanno a trovare i loro amici umani. Scendono le nuvole scala e si infilano dalla finestra, mentre i bambini e gli altri umani che li hanno amati dormono. Prima, se hanno degli amici animali, come per esempio le tartarughe che a me stanno molto simpatiche, vanno a salutare gli amici animali perché parlano la stessa lingua e poi si infilano in casa. Vanno a dormire in mezzo ai loro amici umani, oppure fanno delle piccole birichinate così quando loro si svegliano, si accorgono che è passato il gatto che adesso vive nel paradiso delle crocchette.
Si, e secondo me dormono a siluro tra le gambe dei loro amici umani.
Si, passano lì con la loro valigia e lasciano sparsi per casa dei pezzettini di cielo. In cambio sai cosa prendono?
No, non lo so. Cosa prendono?
Prendono l’amore e i bei ricordi insieme ai loro amici umani, li mettono nella valigia nuvola e se li portano nel paradiso delle crocchette.
E perché? Perché così quando vanno nella “fuseria” che è il posto delle nuvole dove fanno le fusa, tirano fuori i ricordi di amore dei loro umani e possono fare le fusa pensando a loro.
E noi possiamo pensare ai nostri amici animali che hanno lasciato pezzettini di cielo nelle nostre vite umane. 

Gianni Rodari, Dove vanno i gatti quando muoiono?