giovedì 30 agosto 2018

ONG



Sapete davvero cosa fa e come vive ogni giorno chi lavora per le Ong?


Mia sorella si arrabbierà tantissimo per il fatto che io racconterò in modo esemplare la sua storia, e questo succederà perché è una storia vera. Cioè io sono proprio io, Valeria, che la racconto, e la protagonista è proprio lei. Ma, qualche tempo fa, Roberto Saviano chiese a ciascuno di noi di non fare solo bene ciò che si fa meglio, ma fare qualcosa di più, esporsi un poco in più. Così, quando mia sorella si arrabbierà, io le dirò di prendersela con lui, il quale già è l’indirizzario di cattiverie gratuite, e potrà ben sopportare anche il suo broncio motivato.
Mia sorella faceva il liceo classico, quando, durante il terzo anno, cominciò a manifestare un disagio crescente. Andava abbastanza bene a scuola, così non posso dire che fosse per colpa del greco antico: più che altro lei avvertiva una discrepanza troppo evidente tra ciò che sentiva nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che studiava (la filosofia, i tragici) e ciò che accadeva intorno a lei. Credo, eh (sulle mie interpretazioni non mi parlerà per sei mesi buoni). Fatto sta che in maniera un po’ rocambolesca, visto che si era agli albori di internet, scoprì che avrebbe potuto finire l’ultimo biennio in un college della Croce rossa (Red Cross Nordic si chiamava, o giù di lì. Purtroppo verificare significherebbe chiederglielo, ma capite bene che questo la farebbe pre-arrabbiare).
Così a poco più di quindici anni se ne andò per due anni a studiare (con una borsa di studio: i nostri genitori non si sarebbero mai potuti permettere una retta) in un posto dove c’erano 200 ragazzi che venivano da 80 paesi del mondo diversi. Al ritorno si iscrisse all’Università Orientale di Napoli, ma anche qui, dopo qualche anno, cominciò a manifestarsi in lei un disagio crescente. Poiché aveva voti altissimi che prendeva con la facilità di chi scorre nel grande fiume della vita, non posso dire che l’insofferenza fosse dovuta all’ateneo. Piuttosto: avvertiva una discrepanza troppo evidente tra ciò che sentiva nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che studiava (l’Europa dei popoli, le lingue) e ciò che accadeva intorno a lei. Credo, eh (qui non mi parlerà per nove mesi buoni).
E allora, siccome ormai sapeva l’inglese meglio dell’italiano (e almeno altre sei lingue tra cui lo swahili),
se ne partì di nuovo. 
Andò a Dharamsala, sul confine tra India e Cina, dove, appena sotto l’Himalaya, ha insegnato inglese ai piccoli rifugiati tibetani. Minori non accompagnati, si direbbero. Mangiava latte non pastorizzato, e riso e radici, e ha visto il Dalai Lama risalire su da una vallata. Quando è tornata ha dato una tesi di laurea sul conflitto sinotibetano: con orgoglio di sorella posso dire che… No, non posso, ma avete capito da soli che ne sapeva più della commissione. Infatti vinse subito uno stage a Roma presso la sede di un ministero.
Eppure prestissimo sviluppò una insofferenza verso la vita che menava, e siccome il ruolo che occupava era molto ambito, potrei pensare che avvertiva una discrepanza troppo evidente tra ciò che sentiva nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che agiva (correggere l’inglese dei fax, protocollare i fax, mandare i fax) e ciò che accadeva intorno a lei. Credo, eh. E così andò a lavorare per una Organizzazione non governativa in Spagna, e noi tutti ne fummo rasserenati perché la sentivamo finalmente in pace. 
E invece da lì cominciarono le nostre tribolazioni famigliari: quella scellerata se ne partì con Medici senza Frontiere (e anche senza WhatsApp, che non esisteva ancora). Ci lasciò il recapito della Farnesina e si sottopose a certe vaccinazioni che, a elencarle qui, i no-vax incanutirebbero all’istante. Le dissero che questa bomba vaccinale avrebbe potuto avere due conseguenze (oltre a salvarle la vita): febbre alta o ilarità. Passò la notte a rotolarsi sul pavimento per le risate e dopo partì.
Elenco in ordine sparso quello che ci porta fino a oggi: è stata ad Haiti dopo il terremoto (e durante la notte dice che in una chiesa lì vicino facevano un processo di zombificazione). È stata nella Repubblica Centroafricana un paio di volte (una era per l’ebola: ha viaggiato su una jeep che stava poggiata su una zattera, come la controfigura di Harrison Ford).
Ha dormito in posti dove alle 18 si chiudevano i generatori e bisognava essere molto zen per far spuntare giorno (e avere radio a pile, pile buone); è stata avvolta come una mummia in un lenzuolo bagnato per 24 ore, per ambientarsi a un clima di 50 gradi diurni, prima di prendere servizio. È stata in
Nigeria, ha viaggiato con una guardia armata e con una busta di dollari addosso da scambiare in caso volessero rapirla.
Quando la tecnologia si è evoluta per noi non è stato meglio: ne abbiamo saputo di più, come quella volta alla festa della donna che ci mandò una foto sorridente con le mimose in mano e dietro c’erano delle tapparelle abbassate in pieno giorno: c’erano i bombardamenti, a Damasco. Fu la stessa volta che, rientrata in Libano, nostro padre chiosò: «Viviamo il paradosso di dirci felici perché è arrivata a Beirut». 
Ha spianato pezzi di savana per farci atterrare i Piper, ha convinto capivillaggio, in swahili (lei: bianca, femmina e che parla un napoletano ridicolo) che era meglio che quelle signore di cui era capo partorissero nell’ospedale da campo. Adesso dirò una cosa che ha dell’incredibile: ha fatto campagne di vaccinazione dal morbillo e per settimane le donne si sono messe in fila sotto il sole con i bambini in braccio per ricevere quella vaccinazione. Di quello che ha visto e fatto, in quindici anni, non ci ha mai raccontato molto, dettagli pochissimi, credo che sia una questione di rispetto.
Qui bisogna fare un inciso. I cooperanti delle Ong se ne stavano per i fatti loro a lavorare, senza tanto raccontarla in giro: perché quella è la loro vita, e solo degli scrittori fanatici possono pensare che la propria vita sia l’oggetto di una narrazione. Ma poi è cominciato un contro racconto, un racconto diverso su quello che fanno le Ong. A un certo punto andavo in un taxi e il tassista diceva che le Ong erano d’accordo con gli scafisti nella tratta del Mediterraneo. Andavo dal fruttivendolo e una signora diceva che era colpa delle Ong se morivano i bambini in mare, andavo su Twitter e certi ministri si vantavano di aver chiuso i porti alle Ong. Si vede che ciascuno di loro aveva una sorella che lavora in una Ong, e quindi anch’io rischierò qualcosa della mia pace famigliare raccontando quello che so: un giorno hanno mandato un ragazzo dell’età di mio figlio a mettersi una protesi alla gamba saltata su una mina, e lui era felice di salire sull’elicottero, come un ragazzo della sua età. Due sue colleghe sono state rapite. Ad Abuja ha tenuto tra le braccia una bambina di quattro anni abusata. Tanti suoi colleghi sono morti sotto i bombardamenti negli ospedali. Una ragazza di sedici anni è morta invece a pochi metri dall’ospedale: aveva il colera, stava cercando di salvarsi. Una volta mia sorella mi ha detto: «È peggio morire di sete che morire di fame», e io ho sofferto per lei perché ho capito che sapeva di cosa parlava.

Ma quello che volevo dire io
, rischiando di essere cancellata dalle foto di famiglia natalizie, è che le Ong sono fatte di persone così. Quando si chiudono i porti alle Ong è a donne come mia sorella che si sta rendendo difficile il lavoro e si sta chiedendo di giustificarne il senso, non ai torturatori, ai caporali, ai mafiosi. Non a quelli che fabbricano le mine antiuomo e a chi ordina di seppellirle sulla strada che percorrerà il bambino. Non all’uomo che ha stuprato una bambina di quattro anni (e certo, alla sorella del tassista, della signora che compra la frutta e di quelli che scrivono su Twitter).
Ogni volta che si interrompe una rotta che dalla fame e dalla guerra porta verso l’Europa, dal mare o dai Balcani, ogni volta che si nega un corridoio umanitario, e ci si vanta di averlo fatto è quella ragazza di sedici anni che si fa cadere a pochi passi dall’ospedale, che sta scappando dal colera e voleva salvarsi. Quando si temono gli extracomunitari, si fanno le ronde contro gli stranieri, si fanno i migranti di serie A (profughi di guerra) e quelli di serie B (economici) non si sta davvero scendendo nel cuore del problema, perché lì dentro c’è scritta solo una frase: «È peggio morire di sete che morire di fame».
E quello che volevo anche dire è che ognuno di questi posti che vi ho elencato è stato la casa di mia sorella. Li ha aiutati tutti a casa sua. La casa di mia sorella è la Nigeria, Haiti e Damasco e il Tibet, la Repubblica Centroafricana e di certo anche l’Italia, dove ci sono irrazionali scrittori meridionali con cui giustamente da domani potrà prendersela. 
Valeria Parrella

























Controra











Smartmonkey













giovedì 23 agosto 2018

Aôut à Paris









 (foto Marco)









Ready












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Lattosio




Fino a poco tempo fa si pensava che la capacità di digerire il latte in età adulta fosse un tratto dominante, invece fino al 70% della popolazione mondiale presenta una non-persistenza della lattasi (deficit di lattasi in età adulta).
La diagnosi di intolleranza al lattosio si esegue soltanto con esami di laboratorio: il breath test al lattosio (il più diffuso) e il test genetico per l’intolleranza al lattosio.
I nostri antenati potevano digerire il lattosio solo durante la prima infanzia. Gli adulti non erano in grado di digerirlo bene. Oggi una persona su tre può digerire il lattosio anche in età adulta, mentre 2 persone su 3 sono intolleranti.
In Italia il deficit di lattasi interessa in media il 40-50% della popolazione, con punte di prevalenza particolarmente elevate nelle popolazioni meridionali, potendo raggiungere il 70% in Campania e Sicilia.
Oggi una persona su tre può bere il latte anche da adulta perché portatore di una mutazione genetica, nota come persistenza della lattasi (Lactase Persistence). La mutazione della persistenza dell’enzima lattasi si è diffusa ad una velocità straordinaria in Europa, dopo essersi originata circa 7500 anni fa.  
La mutazione genetica, che ha consentito ai primi europei di bere latte senza risentire di conseguenze negative, si sarebbe verificata, in particolare, fra popolazioni che vivevano tra i Balcani centrali e il centro Europa. In precedenza si riteneva che la selezione naturale avesse favorito i bevitori di latte solamente nelle regioni più settentrionali dell'Europa, a causa del loro maggior fabbisogno di vitamina D nella dieta. 








lunedì 20 agosto 2018

domenica 19 agosto 2018

sabato 18 agosto 2018

Ciao





E siamo noi a far bella la luna
con la nostra vita
coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto,
come un ragno nella stanza.
Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna e l’abbondanza.














Marco cavallo














venerdì 17 agosto 2018

Dischi importanti / 1976





La canzone che darà il titolo al disco nasce nel giugno del 1975 come lunga ballata (nell'LP sarà per questo divisa in due parti) che descrive quello che è il mondo giovanile alternativo di quegli anni, usando la metafora degli zingari felici. 


È vero che non ci capiamo,
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada sembra un inferno, o una voce
in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli,
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
e odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.










La Regina





Sa Reina, La Regina. Secondo alcuni si tratta dell’albero d’olivo più grande di tutto il Mediterraneo, e pare abbia abbondantemente superato i novecento anni. 
 

L'oasi denominata "S'ortu mannu" (il grande orto) si estende in un'area di circa 13 ettari, ai piedi del castello di Gioiosa Guardia, nella compagna di Villamassargia. Si tratta di un bosco ricoperto di ulivi secolari, innestati fra il 1300 e il 1600, tuttora visibili nella maestosità dei tronchi che si contorcono robusti e nodosi, protetti dalla folta e vaporosa chioma verdeggiante. Fra questi ulivi è di grande interesse quello chiamato Sa Reina (in sardo "la regina"), che ha un fusto con circonferenza di ben 16 metri, vero e proprio monumento della natura per imponenza e importanza storica.
L'uliveto annovera circa 700 ulivi plurisecolari, molti dei quali, fino a poco tempo fa, erano di proprietà dei cittadini. In seguito al passaggio di "S'ortu mannu" alla competenza giuridica del Comune di Villamassargia, ogni olivo è stato attribuito in affidamento per 99 anni al rispettivo proprietario di origine: quasi ogni famiglia custodisce un esemplare dell'oasi, identificato con delle lettere sui tronchi indicanti le iniziali del capofamiglia. 
 







Bat bomb












giovedì 16 agosto 2018

Eccellenze italiane




I piloni del Ponte Morandi sono stati costruiti tagliando i cornicioni dei palazzi esistenti.
Una scelta progettuale. Non solo si è costruito un viadotto sopra palazzi e palazzine, ma lo si è anche fuso a quelle che si trovavano sulla sua strada. 
 

 








mercoledì 15 agosto 2018

Better men




...can’t find a better man
 










Sapere



L’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla.

Carmelo Bene, Panta










L'inconveniente




Ogni esperienza straordinaria è un ostacolo capitale alla nostra metamorfosi interiore. Conosco la pace solo quando le mie ambizioni si assopiscono, appena si risvegliano mi riprende l'inquietudine. La vita è uno stato di ambizione. L'ambizione è in ogni luogo, se ne vedono le tracce perfino nel volto dei morti. Neanche la minima traccia di realtà da nessuna parte se non nelle mie sensazioni di non realtà. Affrancarsi dalla specie, da questa turpe e immemoriale marmaglia. Bisognava accontentarsi dello stato di larva, rinunciare a evolvere, rimanere incompiuti, gioire della siesta degli elementi e consumarsi quietamente in un'estasi embrionale. La verità risiede nel dramma individuale; se soffro oltrepasso la sfera del mio io e raggiungo l'essenza degli altri. 
Il solo modo di avviarci verso l'universale è curarci unicamente di quello che ci riguarda.

E. Cioran, L’inconveniente di essere nati







Genova

















Privacy





















lunedì 13 agosto 2018

domenica 12 agosto 2018

Il passato / 2



Il nostro modo di amarci -continuo- è stato profondamente modificato dalla tecnologia; va bene, questo lo sappiamo tutti, ma io ti chiedo: cosa c'è di più efficace di una canzone d'amore per testimoniare il passaggio del tempo? Non sono forse le canzoni a conservare la sintassi dei sentimenti per anni e anni, e a restituircela in un momento, intatta, mentre canticchiamo distrattamente una strofa? Conosci per caso una forma di conservazione della memoria altrettanto potente, altrettanto corporea, sensuale e attendibile?

D. De Silva, Sono contrario alle emozioni