venerdì 28 febbraio 2014

Io e te




Io e te
io e te che ridevamo
io e te che sapevamo
tutto il mondo era un bidone da far rotolare...sì
sì perchè
la bellezza dei vent'anni è poter non dare retta
a chi pretende di spiegarti l'avvenire, e poi il lavoro e poi l'amore...
Sì ma qui
che l'amore si fa in tre, che lavoro non ce n'è
l'avvenire è un buco nero in fondo al dramma
Sì, ma allora,
ma che gioventu' che è, ma che primavera è...
e la tristezza è lì a due passi e ti accarezza
e ride...... lei

(Enzo Jannacci)


 



giovedì 27 febbraio 2014

Lettera di un insegnante ai suoi studenti indiani



Lettera ai miei studenti indiani sugli effetti linguistici dei colpi d’arma da fuoco partiti dal ponte di una petroliera italiana

di Alberto Prunetti


Care ragazze, cari ragazzi,
per svariati mesi sono stato il vostro insegnante di italiano tra Mumbai e Bangalore. La maggior parte di voi veniva dal Kerala. Alcuni dei vostri genitori erano pescatori. Ricordo i sacrifici  dei vostri familiari, che speravano di regalarvi un futuro con una laurea in infermieristica e un corso di italiano. Ricordo che l’Italia e l’Europa rappresentavano ai vostri occhi la possibilità di una svolta nella vostra professione e nelle vostre vite. Ricordo  anche che, come tutti gli studenti, l’uso delle preposizioni italiane vi metteva in difficoltà. Per presentarvi, dicevate: “Sono nato a Kerala”. Io allora spiegavo che la regola grammaticale vuole l’uso della proposizione “in + nome dello stato” e “a + nome di città. Per questo si dice “Sono nato in Italia” e “Sono nato a Roma”. Dato che il Kerala è uno stato (l’India è una confederazione di stati, come gli Usa per capirci) si deve dire: “Sono nato in Kerala, a Trivandrum”, come si dice “Sono nato in Colorado, a Boulder”.
Capirete il mio stupore e la mia tristezza, dopo l’assassinio dei due pescatori Valentine Jalestine e Ajeesh Binki, colpiti da colpi d’arma da fuoco provenienti dalla petroliera Enrica Lexie (è un dato di fatto: le istituzioni italiane hanno già versato un indennizzo ai parenti delle vittime in un accordo extra-giudiziario di cui si parla poco nel bel paese). Dopo questo tragico episodio, all’improvviso gli italiani hanno scoperto l’esistenza del vostro mare e hanno cominciato a dire: “Il nostro ambasciatore” oppure “l’inviato del governo”… “è andato a Kerala”. L’hanno fatto tutti, da chi allora era a capo del governo, ai direttori dei più prestigiosi telegiornali.
Hanno sbagliato, dimostrando la propria ignoranza di almeno una di queste realtà:
- l’India;
- la grammatica italiana;
Probabilmente entrambe, direi.
Purtroppo però voi, ascoltando questi importanti opinionisti, potreste pensare che devo aver sbagliato io. Che non ero un buon insegnante. Perché io vi dico una cosa e quelli che contano mi contraddicono. E poi in fondo sono solo un insegnante di italiano – anzi, un ex insegnante – e probabilmente ho meno autorevolezza ai vostri occhi di un direttore di un Tg o di un capo del governo.
Ma la realtà, cari studenti, è che la ragione se la prende chi impugna un fucile o chi usa le parole come se fossero armi. Perché può raccontare le cose come più gli conviene. Come quei fatti di cronaca definiti eroici quando nella migliore delle ipotesi sono un tragico errore. Come le preposizioni usate a caso.
Io però qualche consiglio linguistico ve lo do lo stesso.
Su aggettivi e pronomi possessivi: diffidate da chi eccede nell’uso dei possessivi. “La nostra lingua”, “la nostra religione”, “i nostri marò”, “la nostra patria”. Servono a alimentare un immaginario condiviso, dietro costrutti identitari, per nascondere divisioni più importanti. Questa retorica della condivisione è sempre più diffusa, in italiano. Come del resto da voi. Ma prestate attenzione alla retorica. Guardate cosa c’è dietro. Si parla di “uomini di mare” con un termine-ombrello che ha una denotazione troppo ampia. Anche sul mare, non esistono solo “uomini di mare”. A un tiro di schioppo, sul vostro mare pieno di pesce e di reti cinesi, si sono trovati vicini inermi pescatori e soldati in funzione di contractor armati, che rivendicano il diritto di sparare a difesa del petrolio e delle merci occidentali. Quel petrolio maledetto che si paga in dollari e in vite umane. Quegli “uomini di mare” tanto diversi, in realtà sono stati per un istante uniti da una sola cosa: la traiettoria di un proiettile. Non si possono mettere sotto uno stesso termine, “uomini di mare”, chi difendeva le merci occidentali su rotte coloniali, guadagnando in un giorno quello che i  vostri genitori guadagnano in un anno, e chi è morto per portare il pane e il pesce sulla tavola dei propri figli. Non fatevi ingannare dalla retorica degli “uomini di mare”. Voi conoscete l’opera di Jack London e sapete  che un mozzo non è un capitano.
Un’altra parola controversa, che in classe non abbiamo mai usato, è questa: “terrorista”. Ne capite il significato ma non comprendete il campo di denotazione. Io sono più confuso di voi. Con buona ragione, le autorità italiane si stanno battendo perché l’accusa di terrorismo non cada sulle spalle dei due marò. Capisco il vostro stupore di fronte al fatto che in Val di Susa quattro giovani no tav sono stati accusati da una procura italiana dello stesso reato. Anche loro sono considerati terroristi, eppure non hanno ucciso dei pescatori, ma pare che siano accusati del danneggiamento di un compressore. Insomma, mi sembra che bisogna precisare meglio i campi di denotazione e la profondità semantica di alcuni termini appartenenti al lessico italiano, per non dare l’impressione che un compressore valga più della vita di due pescatori indiani.
Avrei tante cose da dirvi, ma tante altre dovrei dirle ai miei connazionali che si fanno bombardare da parole prive di idee nei telegiornali. Parole che fanno gonfiare il petto ma svuotano la testa. Informazione o propaganda? Comunicazione o rumore martellante che solletica le emozioni più viscerali degli italiani? Espressioni ben composte grammaticalmente che però rimandano a assurdità nel campo della referenza. L’espressione “Pirati in Kerala”, ad esempio, grammaticalmente ben formata, ha lo stesso valore delle “idee verdi senza colore che dormono furiosamente”, di cui parlava un altro professore, ben più importante di me: Noam Chomsky. Perché in Kerala i pirati compaiono solo sugli schermi dei vostri splendidi cinema. Ma qui si entra nel campo della logica e il vostro teacher preferisce non avventurarsi tanto al largo nel mare delle idee chiare e distinte. Non vorrei che prendessero per pirata anche me.
A proposito: degli effetti linguistici di quegli spari ne ho parlato sopra, di quelli pragmatici non ne vuole parlare nessuno. Jalestine e Binki sono morti, dopo quegli spari. Quanti italiani si ricordano i loro nomi? Se mai tornerò a farvi lezione, vi proporrò un’unità didattica con due canzoni dedicate ai pescatori, una cantata da Fabrizio De André e l’altra da Pierangelo Bertoli (lo so che vi annoiate con la musica italiana, ma che ci posso fare?). Meritano di essere didattizzate, innanzitutto perché si prestano per illustrare il modo imperativo e il tempo futuro, poi perché ogni volta che le ascolto mi viene in mente una banalità: che un soldato può diventare un eroe, ma un pescatore quando non torna a casa viene dimenticato.
Un ultimo punto. Quello della condanna. Che poi è linguaggio anche quella, è un atto linguistico sia l’imputazione che la sentenza, un atto linguistico con conseguenze pragmatiche. Qui si parla tanto di condanne e pene. Io credo che il carcere, come la bacchetta dei professori di un tempo, non serva a nulla e credo anche che le vite umane non si tolgono, né con la corda né con il fucile. Immagino però che da qualche parte, in quelle migliaia di pagine di epica e di leggende e nei film e nelle canzoni dei pescatori del Kerala che avete invano cercato di insegnarmi – che pessimo studente di malayalam sono stato… – ci deve essere la soluzione anche per questa cosa dei marò, per uscirne bene oltre quel polverone sollevato dai media e dalle retoriche nazionaliste, che rende tutto più avvilente e incomprensibile. Nei panni di chi ha sparato dal ponte della petroliera Enrika Lexie, chiederei di essere condannato a costruire asili per gli orfani del Kerala. E chiederei che invece di comprare costosi bombardieri F35, il ministero della difesa italiano usi una parte di quei soldi per costruire delle scuole in Kerala (non “a Kerala”, cari ministri).  E che invece di spedire militari e diplomatici, l’Italia accolga degli infermieri del Kerala nei propri ospedali e li paghi correttamente. E che i due paesi attivino dei programmi di scambio tra studenti e delle borse di studio, pagati dal ministero italiano della difesa, visto che nel paese di Marco Polo anche gli opinionisti della televisione pensano che l’India sia un paese di fachiri (e io credo che voi in Kerala non abbiate mai visto un fachiro, giusto?). E che i fucilieri che hanno sparato contro i pescatori facciano la mattina il muratore e il pomeriggio l’insegnante di italiano in una scuola del Kerala, che forse a quel punto in omaggio ai “nostri insegnanti” il ministero si degnerà di riconoscere la professionalità degli insegnanti di italiano LS/L2. Poi la pena continuerebbe la sera: dopo aver mangiato un thali di riso sulle foglie di banano, che non c’è niente più sano e gustoso, i nuovi professori diventerebbero studenti per imparare la vostra lingua, il malayalam. Liberi di muoversi in Kerala e di ricevere visite, dovrebbero vivere come i pescatori e conoscere l’uso delle reti cinesi, che sorgono maestose a Kochi. Se vi sembra una pena leggera mettersi nei panni di un muratore o di un insegnante, pensate che un militare italiano in funzioni di contractor per un armatore privato sui vostri mari guadagna 467 euro al giorno, un insegnante di italiano all’estero su un progetto non ministeriale, a parità di latitudine, è pagato circa 40 euro al giorno, mentre un pescatore o un muratore indiani vivono sotto la soglia della povertà del vostro stesso paese, sudando per poche rupie dall’alba al tramonto.
La pena poi dovrebbe essere linguistica, ovvero condizionata alla scrittura di una canzone in malayalam che parli dei frutti del mango e del sorriso delle ragazze di Allepey. Una di quelle canzoni che, costretto da voi, ballavo con poca maestria. Un giorno allora, dopo aver imparato il malayalam al punto di saper scrivere una canzone con le parole della lingua di Jalestine e Binki, quel debito con la terra dell’acqua e del riso sarebbe estinto e chi ha sparato contro dei pescatori sulle acque del Malabar sarebbe libero  di tornare nel paese dove è nato. O di rimanere, se fosse felice di quella nuova vita.
A patto di non cantare mai quella canzone a Sanremo.
Probabilmente queste mie parole risulteranno naif a voi e poco patriottiche alle orecchie dei miei connazionali. Ma io non sono un fuciliere né un diplomatico, non amo né le armi né le galere e leggo troppi libri. Dico solo che da insegnante io il caso Jalestine e Binki, che qui – ennesimo errore linguistico – chiamano “il caso marò”, l’avrei già risolto così, da tempo.
Forse le cose andranno in un altro modo.
In ogni caso vi abbraccia il vostro insegnante di italiano, vostro allievo di tante giornate indiane, che con queste righe si toglie un rospo dalla gola (è una metafora, non prendetela alla lettera) e vi ricorda per l’ennesima volta che non dovete alzarvi quando il prof entra in classe.

Alberto

Pubblicato il 25 febbraio 2014 · in Editoriali · http://www.carmillaonline.com









Amore di gatto







mercoledì 26 febbraio 2014

Sommario








Politica


Questa politica che cerca di riavvicinarsi ai cittadini è irrispettosa degli sforzi che abbiamo fatto pur di allontanarcene.


(http://periferiagalattica.tumblr.com/)










lunedì 24 febbraio 2014

Opinioni


Accendete il vostro televisore. Ascoltate, guardate. Cosa sentite per tutta la giornata? Opinioni. Io rispetto le opinioni, tutte le opinioni, ma sono l’esatto contrario della comunicazione. Un’opinione, per sopravvivere, deve stare dentro un guscio chiuso ermeticamente. Più il guscio sarà resistente, meglio funzionerà l’opinione. Se il guscio è fragile, l’opinione si spacca e sparge il suo tuorlo. Le opinioni riescono a convivere finché sono protette da gusci ugualmente solidi. Molto bene. Ma cosa c’entrano con la comunicazione? Niente. Si vive con la propria opinione, si muore con essa, oppure la si cambia, ma non si comunica mai. Al limite si fa bisboccia con quelli che hanno la stessa opinione, tutto qua.

R. Topor, Memorie di un vecchio cialtrone




domenica 23 febbraio 2014

Demagogo



Il demagogo è l’esatto contrario del pedagogo, sebbene entrambi si rivolgano al sentimento di solitudine dell’essere umano. Il pedagogo nutre la nostra solitudine ontologica di un sapere proteiforme, sviluppa la nostra curiosità, stuzzica il nostro appetito di ricerca, stimola il nostro atteggiamento critico, esercita sul nostro spirito un’influenza che non diventa mai dominio, insomma contribuisce a farci diventare degli individui riflessivi, aperti e tolleranti, la cui unione costituisce una comunità umana democraticamente vivibile.

Al contrario, il demagogo confisca a proprio vantaggio il sentimento di solitudine suscitato dai fallimenti, dalle lacune, dalle frustrazioni, dalle sofferenze, dalle paure e dai risentimenti. Sostituisce il dogma allo spirito critico, lo slogan al ragionamento, le voci incontrollate ai fatti stabiliti, le cieche convinzioni ai dubbi intelligenti, le credenze ai saperi, il diktat indiscutibile alle istituzioni misurate, e soprattutto, designa il colpevole, presentandosi come un vendicatore provvidenziale. Così facendo, sprigiona fascino, nel senso più arcaico del termine, e lo esercita: il demagogo è il pifferaio magico che ci strappa alla solitudine e noi siamo i bambini spaesati che lo seguono in massa verso il fiume in cui annegheremo.

Daniel Pennac




giovedì 20 febbraio 2014

Far niente


Tutti credono che far niente sia una cosa facile, ma bisogna vedere questo niente come lo fanno. Socrate, Platone, Diogene, non facevano niente tutto il giorno, ma quel niente lo facevano in modo perfetto.

Eduardo De Filippo




Europa







Anitre


Ehi, Horwitz, - dissi. - Ci passa mai vicino allo stagno di Central Park? Giù vicino a Central Park South? - Al cosa? Allo stagno. Quel laghetto, cos'è, che c'è laggiù. Dove ci sono le anitre, sa? - Sì, e allora? - Be', sa le anitre che ci nuotano dentro? In primavera ec­cetera eccetera? Che per caso sa dove vanno d'inverno? - Dove vanno chi? Le anitre. Lei lo sa, per caso? Voglio dire, vanno a pren­derle con un camion o vattelappesca e le portano via, oppure volano via da sole, verso sud o vattelappesca? Il vecchio Horwitz si girò tutto di un pezzo sul sedile e mi guardò. Aveva l'aria d'essere un tipo nervosetto. Non era af­fatto malvagio, però. - E come diavolo faccio a saperlo? — disse. - Come diavolo faccio a sapere una stupidaggine cosi? - Be', non si arrabbi per questo, - dissi. Era arrabbiato o che so io. - E chi si arrabbia? Nessuno si arrabbia. Io smisi subito di chiacchierare con lui, se doveva essere così maledettamente suscettibile. Ma fu lui stesso a riattac­care. Si girò tutto un'altra volta e disse: - I pesci non vanno in nessun posto. Restano dove sono, i pesci. Proprio in quel dannato lago.  - Ma i pesci... è un'altra cosa. I pesci sono un'altra cosa. Io sto parlando delle anitre, - dissi.  

Salinger, Il giovane Holden


martedì 18 febbraio 2014

La repubblica degli adolescenti



I bambini in Italia sono pochi e durano pochissimo, fino a sei anni. L’adolescenza ormai va dai sei a sessant’anni. Poi comincia una terra di nessuno, un’ampia fascia di confine tra l’adolescenza e la vecchiaia. Dunque, le pizzerie sono piene di adolescenti, il parlamento è pieno di adolescenti. Dunque, Renzi è uno statista o un brufolo? Il suo successo viene dalla sua immagine di figlio. Non ci sono padri sulla scena politica italiana. La faccia da padre apparteneva a Togliatti, a De Gasperi, a Berlinguer. Berlusconi, ovviamente, non è padre, al massimo zio impertinente.
Viviamo nella dittatura del capriccio. D’Alema è un capriccioso gelido. Grillo è un capriccioso furente, sempre di capricciosi si tratta. Se il Pd a suo tempo avesse dato la tessera a Grillo, il suo movimento avrebbe avuto tutta un’altra storia.
Poi ci sono quelli fintamente pacati, capricciosi anche loro. Penso al Presidente della Repubblica. I capricciosi non si stancano mai. Il nostro Presidente non è ancora stanco. Non è stanco Casini. E ovviamente non è stanco Berlusconi. Tutti animati non da ideali, ma dall’idea di non darla vinta agli altri. Tutti accesi dal gruppo elettrogeno del rancore, dalle pile della miseria spirituale. Il tratto distintivo della casta non è l’ingordigia, quella è distribuita in tutta la popolazione, ma una particolarissima diserzione dalla serenità. Per arrivare al potere, sia esso culturale, economico o politico, bisogna essere dotati di un qualche squilibrio, di una foga senza fine. E allora c’è da riflettere sulla democrazia. Tutti possono concorrere, ma vincono i più aggressivi, i più ossessivi, non quelli che hanno le idee migliori. La differenza col passato è che non abbiamo e forse non avremo più Caligola e Hitler e Mussolini, ma gente come Berlusconi, Renzi, Casini. Più che cupe follie, ora siamo all’agonia ciarliera di una democrazia consumista che è diventata sempre più merce di se stessa. L’uomo politico è un intrattenitore, in qualche caso un artista, anche se di infima categoria. Berlusconi ha portato in Italia il surrealismo di massa. Renzi ha riesumato il futurismo. Più che di correnti politiche, dovremmo parlare di correnti letterarie. Non ci sono più i progressisti e i conservatori, ma i cultori del sonetto, Napolitano, e i cultori del verso libero, Grillo.
In nessun posto al mondo esiste un programma televisivo che dura tre ore, ma che conta solo per le cose che dice un comico nei primi cinque minuti: tutto il resto è una sorta di appendice, un velo lunghissimo e pietoso. Crozza illustra come stanno le cose. Gli invitati in studio stanno lì a convalidare lo stato inerte e delirante di tutta la nazione.
In un contesto del genere non ha senso cambiare governo e neppure parlamento, è come truccare una faccia che non esiste. Gli italiani, ognuno col suo potere (nessuno ne è completamente privo, perfino il più avvilito mendicante), devono capire che lo spettacolo della politica non può durare all’infinito. Il mondo si fa per le strade, nelle case, dentro la terra, non sugli schermi della finzione globale, non tra le ombre digitali della finanza e della rete. L’agenda delle riforme dovrebbe vedere al primo posto il ritorno delle cose vere. E ognuno di noi deve partecipare a questa riforma con un gesto, con un pensiero radicalmente onesto. Essere adulti è questo, nient’altro che questo. Forse facciamo ancora in tempo ad evitare il tempo in cui di noi diranno che fu finta anche la vita più convinta.

Franco Arminio (pezzo uscito qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano)






lunedì 17 febbraio 2014

venerdì 14 febbraio 2014

Mala tempora currunt



"(…) mi spiegate perché, davvero, stiamo facendo un altro governo con questi signori, preoccupati solo di non discutere di unioni civili e di ius soli? Perché stiamo facendo un altro governo che non solo non ha il mandato degli elettori ma non rappresenta nemmeno il 50% dei suffragi dello scorso febbraio? Perché stiamo facendo un altro governo frutto di un ribaltamento della linea, poi di una scissione, poi di un ribaltone e infine di una staffetta “sul posto”? Perché stiamo facendo un altro governo dopo avere escluso di farlo, preoccupati soltanto di fare una velocissima legge elettorale di cui ora tutti dicono che non è poi così veloce, che bisogna completarla con le riforme e che poi non siamo mica sicuri che passa, dopo aver giurato che passava nel giro di due settimane e che era una mossa geniale perché tutti avrebbero dovuto farla passare così senza fare una piega? Mi spiegate perché abbiamo celebrato l’uscita di scena di Berlusconi e poi abbiamo celebrato il suo ritorno? Mi spiegate perché ci siamo detti ufficialmente contrari alle larghe intese (era ora) e per tutta risposta ne facciamo delle altre, che sono solo più lunghe delle precedenti? Me lo spiegate voi, perché io non ce la faccio?
Da ultimo, per fatto personale: ma perché nessuno è coerente con quello che dice e fa il contrario di quello che dichiara? Perché così è un po’ difficile, rimanere coerenti mentre tutti fanno giravolte e testacoda."

Dal blog di Pippo Civati    http://www.ciwati.it/




Street Art / 2










mercoledì 12 febbraio 2014

Sport Etico / Boycott




Olimpiadi insanguinate. Le autorità di Sochi, la città russa che ospita i Giochi , hanno assoldato addirittura una compagnia privata per eliminare il maggior numero possibile di cani randagi dalle strade prima che si aprisse la kermesse invernale. Questo - denuncia Abc News - malgrado l'impegno preso nei mesi scorsi, di lasciare in pace i cani. E invece prima che prendessero il via le gare, c'è stata una vera e propria strage di randagi. La Russia non è nuova in questo genere di crudeltà. Ricordiamo il massacro alla vigilia dei Campionati europei di calcio a Kiev: circa 30mila i cani uccisi per strada dai "dog hunter" a bastonate, a fucilate, con il veleno.
Così a Sochi si replica. L'ordine era categorico: ripulire le strade. Quasi come se si trattasse di spazzatura. Secondo le stime delle associazioni animaliste sarebbero stati uccisi circa seimila cani. Una vera mattanza. Le foto - come quella che pubblichiamo - hanno fatto il giro del mondo provocando rabbia e sconcerto. Sul web sono già nati gruppi anti-Olimpiadi.
«Queste stragi sono crudeli e inutili - spiega Elizabeth Sharpe, della World Society for the protection of animals - L’unico sistema per controllare in maniera efficace le popolazioni di randagi è quella di programmi a lungo termine di vaccinazioni e sterilizzazioni». Già, ma intanto Putin si fa fotografare con il ghepardo domato...

(da Il Mattino)






" Il calcio è più importante dell'insoddisfazione delle persone".

Joseph Blatter, presidente della Fifa







domenica 9 febbraio 2014

sabato 8 febbraio 2014

giovedì 6 febbraio 2014

Rinascita




Ho tanta fede in te
che durerà
(è la sciocchezza che ti dissi un giorno)
finché un lampo d’oltremondo distrugga
quell’immenso cascame in cui viviamo.
Ci troveremo allora in non so che punto
se ha un senso dire punto dove non è spazio
a discutere qualche verso controverso
del divino poema.
So che oltre il visibile e il tangibile
non è vita possibile ma l’oltrevita
è forse l’altra faccia della morte
che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.
Ho tanta fede in me
e l’hai riaccesa tu senza volerlo
senza saperlo perché in ogni rottame
della vita di qui è un trabocchetto
di cui nulla sappiamo ed era forse
in attesa di noi spersi e incapaci
di dargli un senso.
Ho tanta fede che mi brucia; certo
chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere
senz’accorgersi ch’era una rinascita.

E. Montale, Altri versi



Valori



Un po' di possibile, se no soffoco

 (Gilles Deleuze)