sabato 29 giugno 2013

Persone importanti / 2




Il compito della scienza è cercare di capire quali siano le leggi che regolano l’universo, la nostra vita, i nostri pianeti, senza ricorrere a Dio. Ricorrendo a Dio non c’è più bisogno di scienza. È come se Dio ci desse da fare le parole crociate, tanto poi se non si fanno, spiega tutto lui. Il compito della scienza è proprio quello di fare a meno di Dio. Cercare di capire con la propria ragione.

 Margherita Hack (Firenze, 12 giugno 1922 – Trieste, 29 giugno 2013)




giovedì 27 giugno 2013

martedì 25 giugno 2013

Persone importanti / 1



L’uomo non troverà la pace interiore finché non imparerà ad estendere la propria compassione a tutti gli esseri viventi.
Non si può permettere che qualcuno consideri leggero il peso delle proprie responsabilità. Finché vengono perpetrati tanti maltrattamenti ai danni degli animali, finché i gemiti degli animali assetati, imprigionati in vagoni merci, continuano a non essere ascoltati, finché tanta brutalità ha la meglio nei nostri mattatoi... siamo tutti colpevoli. Ogni essere vivente è prezioso proprio perché vive, perché rappresenta una delle manifestazioni evidenti di quel mistero che chiamiamo vita.
Nostro dovere è prendere parte alla vita e averne cura. Il rispetto reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta il comandamento più importante nella sua forma più elementare. Ovvero, espresso in termini negativi: "Non uccidere". Prendiamo così alla leggera questo divieto che ci troviamo a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare un povero insetto senza pensarci, senza pensare, orribilmente ciechi, non sapendo che ogni cosa si prende le proprie rivincite, non preoccupandoci della sofferenza del nostro prossimo, che sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni.
Solo una parte irrilevante delle immense crudeltà commesse dagli uomini può essere ascritta ad istinti crudeli. La maggior parte di esse è dovuta a superficialità o ad abitudini consolidate. Le radici della crudeltà, quindi, sono più diffuse di quanto non siano forti. Ma verrà il giorno in cui l’ inumanità, protetta dalle abitudini e dalla superficialità, soccomberà di fronte all’ umanità difesa dalla riflessione. Lasciateci lavorare per far sì che questo giorno arrivi.
Devo interpretare la vita che mi circonda nello stesso modo in cui interpreto la mia. La mia vita è molto significativa per me. La vita che mi circonda deve essere significativa per se stessa. Se mi aspetto che gli altri rispettino la mia vita, io devo rispettare quella degli altri, per quanto strana mi possa sembrare. E non solo la vita umana, ma la vita di tutti gli esseri: le forme di vita di livello superiore al mio, se esistono; quelle di livello inferiore, che so che esistono. 
L’ etica, come viene intesa nel mondo occidentale, è stata finora limitata ai rapporti tra uomini. Ma questa etica è limitata. Abbiamo bisogno di unetica più vasta, che includa anche gli animali.
L’ etica è, nel senso più vasto del termine, un senso di responsabilità esteso a tutto ciò che ha vita.
 

Albert Schweitzer, (1875 -1965) medico, teologo protestante, missionario, insigne organista, premio Nobel per la pace




domenica 23 giugno 2013

Supercell





Auditions


 







"These wonderful photos were taken in 1961 by Ralph Crane documenting Black Cat Auditions in Hollywood. A shot of Vincent Price suggests that this audition must have been for Tales of Terror (1962) by Roger Corman"






 



sabato 22 giugno 2013

Religioni



Di fronte ai grandi problemi mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre o esponendo la gamma delle possibili risposte o ponendo ancora un’altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me […]
Ho sempre avuto un grande rispetto per i credenti, ma non sono un uomo di fede. La fede, quando non è un dono, è un’abitudine; quando non è né un dono né un’abitudine, deriva da una forte volontà di credere. Ma la volontà comincia dove la ragione finisce: io mi sono sinora arrestato prima. Mi è anche completamente estranea la fede nella ragione. Non ho mai avuto la tentazione di sostituire la Dea Ragione al Dio dei credenti. Per me, la nostra ragione non è un lume: è un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Com’è nato l’universo? Come finirà? Che parte ha in esso l’uomo, questo essere che, a differenza di tutti gli altri esseri viventi che conosciamo, non solo è nel mondo ma s’interroga sul suo posto nel mondo, o, per usare il termine classico di tutta la nostra tradizione, sul suo destino che è per essenza “cieco”? Che è immerso nel male dell’universo, o almeno in quello che secondo il suo giudizio è male, e si pone la domanda, da quando ha cominciato a riflettere sulle cause e sui fini: “Perché il male?”, una domanda cui non è mai riuscito a dare una risposta convincente? Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che non vi è riuscita la scienza, e qui intendo per “scienza” il complesso delle conoscenze acquisite con l’uso della nostra intelligenza. Ma vi sono riuscite le religioni? Parlo di risposte convincenti, di cui questa stessa intelligenza si possa appagare, non di risposte consolatorie e quindi illusorie, che appagano l’animo di coloro che vogliono, disperatamente vogliono, per l’enormità e l’insopportabilità del male di cui soffrono, essere consolati. Al contrario del lumicino della ragione, la fede illumina, ma spesso, per troppo illuminare, acceca. Donde nascono, se non da questo accecamento, gli aspetti perversi della religione? L’intolleranza, la coazione a credere, la persecuzione dei non credenti, lo spirito di crociata? Non riprenderei questo vecchio argomento, tacendo il quale peraltro non si comprende la battaglia dei “lumi” così caratteristica del pensiero moderno, se non fosse che questo stesso argomento viene continuamente usato con la stessa partigianeria per imputare al processo di secolarizzazione tutte le perversioni del nostro secolo, come se l’età più cruenta prima delle due guerre mondiali non fosse stata quella delle guerre di religione.

(Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994)





mercoledì 19 giugno 2013

Loneliness



La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice.

José Saramago, L’anno della morte di Ricardo Reis





martedì 18 giugno 2013

Santo di oggi



18 giugno – Santa Marina di Bitinia

Santa Marina vergine visse in Bitinia o da qualche altra parte, tra il terzo e l’ottavo secolo, una vita pia e abbastanza noiosa come capita alle monache, con un’importante eccezione: Marina la visse in un monastero maschile, col nome di “Marino”. Nessuno si accorse del travestimento, al punto che fu accusata di aver messo incinta una cameriera. Come eccezione non è nemmeno così eccezionale: di sante travestite, soprattutto in area bizantina, ne fiorirono diverse. Santa Eufrosina, Santa Matrona, Sant’Anna, Santa Eugenia, Sant’Anastasia, Santa Teodora, e chissà quante altre, l’invidia del saio era insomma una patologia diffusa e non c’era probabilmente monastero senza la sua mascotte. Un sistema per scansare i sospetti era dichiarare di essere eunuco; questo poteva spiegare la voce acuta e la difficoltà a far crescere una barba monacale. Sempre che ce ne fosse il bisogno.
A caratterizzare Marina rispetto alle sorelle travestite è il movente (orfana di madre, Marina si fa monaco per restare vicina al padre, che aveva deciso di entrare in monastero), e lo sviluppo un po’ boccaccesco, che fece il giro del mediterraneo e ci è arrivato in dozzine di versioni diverse. In sostanza, il giovane Marino/Marina, già stimato da tutti i confratelli per la rettitudine e le virtù eccetera, viene inviato da qualche parte insieme con una delegazione di monaci. Nella locanda dove pernottano, un soldato giunto nottetempo stupra la figlia dell’oste. Quando i genitori se ne accorgono è troppo tardi, il soldato è già tornato alla tenebra donde è venuto, e la fanciulla è disonorata per sempre. L’unica è incolpare qualcun altro; in questo sono straordinariamente fortunati, perché Marino, l’irreprensibile Marino, denunciato davanti al suo superiore, non osa difendersi. Anzi, a un certo punto confessa la sua impossibile colpa. In questo possiamo ravvedere il masochismo tipico del folle di Dio, che decide di caricarsi delle colpe degli altri, ma anche un atteggiamento più prosaico: Marino aveva ben altro da temere che un’accusa di violenza sessuale, robetta. Al risarcimento ci avrebbe pensato il monastero. Quello che rischiava veramente, Marino/a, era il rogo per travestitismo: indossare indumenti non confacenti al proprio sesso era peccato mortale, e mille anni dopo sarebbe stato ancora il cardine di tutto il processo-farsa a Giovanna d’Arco. Marina insomma è una peccatrice, che diventa santa proprio in quanto peccatrice: una contraddizione che si spiega soltanto se immaginiamo la sua storia all’incrocio tra due civiltà diverse.
Il Vangelo di Tommaso terminava promettendo il Regno dei Cieli a “ogni donna che si farà uomo” – ma fu escluso abbastanza presto dai testi canonici. Quando la storia di Marina comincia a diffondersi nel mediterraneo, il cristianesimo è già una cultura egemone che aspira prima d’ogni cosa all’ordine: donne e uomini se ne stiano al loro posto. Ma il nocciolo della storia contiene ancora l’anima del cristianesimo degli inizi, una setta di folli che in attesa di una fine imminente avevano abolito la proprietà e le differenze di ceto e di genere. “Quando farete… l’interno come l’esterno e l’esterno come l’interno, e il sopra come il sotto, e quando farete di uomo e donna una cosa sola, così che l’uomo non sia uomo e la donna non sia donna…” solo allora entrerete nel Regno, diceva ancora l’apocrifo Tommaso. Marina nel frattempo deve abbandonare il monastero, ma pazienza: basta trasferirsi lì nei pressi, vivere rettamente e aver pazienza, prima o poi lo avrebbero riaccolto – figurati se lo bandiscono a vita per uno stupro, uno stupro solo? figurati.
Nove mesi dopo, la sorpresa.
Marino/a si trova un fagotto davanti alla porta di casa. Non le resta che improvvisarsi padre. Con che latte? Qui le versioni divergono: chi s’immagina una miracolosa montata lattea nella vergine-monaco, chi suggerisce che il latte glielo portassero i pastori. Preferisco quest’ultima: mi lascia il sospetto che una storia del genere possa essere capitata davvero. Marina cresce il figlio non suo come un padre, avviandolo ovviamente alla carriera monacale; e ovviamente se lo porta con sé quando i confratelli decidono di riammetterlo, a tre anni dal fattaccio. Continuerà a mostrarsi un esempio di rettitudine e virtù per il resto della sua esistenza; il suo segreto sarà scoperto soltanto quando i monaci ne spoglieranno il cadavere per pulirlo. (…)

San Marina è patrona delle gravidanze difficili, dei genitori non standard, e si invoca per far sgorgare l’acqua o il latte. Il nome l’ha resa molto popolare tra i marinai, i monaci del mare, anche loro spesso inclini a favoleggiare di fanciulle travestite, compresse in abiti da mozzo. Dopo il crollo dell’Impero Bizantino, Venezia ne volle a tutti i costi le spoglie e le trovò, ma non fu sempre un’ospite all’altezza.

Leonardo Tondelli  su Il Post

 

 

 

 

 

domenica 16 giugno 2013

L'universo come specchio



Il signor Palomar soffre molto della sua difficoltà di rapporti col prossimo. Invidia le persone che hanno il dono di trovare sempre la cosa giusta da dire, il modo giusto di rivolgersi a ciascuno; che sono a loro agio con chiunque si trovino e che mettono gli altri a loro agio; che muovendosi con leggerezza tra la gente capiscono subito quando devono difendersene e prendere le loro distanze e quando guadagnarsi la simpatia e la confidenza; che danno il meglio di sé nel rapporto con gli altri e invogliano gli altri a dare il loro meglio; che sanno subito quale conto fare d'una persona in rapporto a sé e in assoluto.
«Queste doti, - pensa Palomar col rimpianto di chi ne è privo, - sono concesse a chi vive in armonia col mondo. A costoro riesce naturale stabilire un accordo non solo con le persone ma pure con le cose, con i luoghi, le situazioni, le occasioni, con lo scorrere delle costellazioni nel firmamento, con l'aggregarsi degli atomi nelle molecole. Quella valanga d'avvenimenti simultanei che chiamiamo l'universo non travolge il fortunato che sa sgusciare per gli interstizi più sottili tra le infinite combinazioni, permutazioni e catene di conseguenze, evitando le traiettorie dei meteoriti micidiali e intercettando al volo solo i raggi benefici. A chi è amico dell'universo, l'universo è ami-co. Potessi mai, - sospira Palomar, - essere anch'io così! »
Decide di provare a imitarli. Tutti i suoi sforzi, d'ora in poi, saranno tesi a raggiungere un'armonia tanto col genere umano a lui prossimo quanto con la spirale più lontana del sistema delle galassie. Per cominciare, dato che col suo prossimo ha troppi problemi, Palomar cercherà di migliorare i suoi rapporti con l'universo. Allontana e riduce al minimo la frequentazione dei suoi simili; s'abitua a fare il vuoto nella sua mente, espellendone tutte le presenze indiscrete; osserva il cielo nelle notti stellate; legge libri d'astronomia; si familiarizza con l'idea degli spazi siderei finché questa non diventa una suppellettile permanente del suo arredamento mentale. Poi cerca di fare in modo che i suoi pensieri tengano presenti contemporaneamente le cose più vicine e le più lontane: quando accende la pipa l'attenzione per la fiamma dello zolfanello che alla prossima tirata dovrebbe lasciarsi aspirare fino in fondo al fornello dando inizio alla lenta trasformazione in brace dei fili di tabacco, non deve fargli dimenticare nemmeno per un attimo l'esplosione d'una supernova che si sta producendo nella Grande Nube di Magellano in questo stesso istante, cioè qualche milione d'anni fa. L'idea che tutto nell'universo si collega e si risponde non l'abbandona mai: una variazione di luminosità nella Nebulosa del Granchio o l'addensarsi d'un ammasso globulare in Andromeda non possono non avere una qualche influenza sul funzionamento del suo giradischi o sulla freschezza delle foglie di crescione nel suo piatto d'insalata.
Quando è convinto d'aver esattamente delimitato il proprio posto in mezzo alla muta distesa delle cose galleggianti nel vuoto, tra il pulviscolo d'eventi attuali o possibili che si libra nello spazio e nel tempo, Palomar decide che è venuto il momento di applicare questa saggezza cosmica al rapporto coi suoi simili. S'affretta a tornare in società, riallaccia conoscenze, amicizie, rapporti d'affari, sottopone a un attento esame di coscienza i suoi legami e i suoi affetti. S'aspetta di vedere estendersi davanti a sé un paesaggio umano finalmente netto, chiaro, senza nebbie, in cui egli potrà muoversi con gesti precisi e sicuri. È così? Nient'affatto. Comincia a impelagarsi in un garbuglio di malintesi, vacillazioni, compromessi, atti mancati; le questioni più futili diventano
angoscianti, le più gravi s'appiattiscono; ogni cosa che lui dice o fa risulta maldestra, stonata, irresoluta. Cos'è che non funziona?
Questo: contemplando gli astri lui s'è abituato a considerarsi un punto anonimo e incorporeo, quasi a dimenticarsi d'esistere; per trattare adesso con gli esseri umani non può fare a meno di mettere in gioco se stesso, e il suo se stesso lui non sa più dove si trova. Di fronte a ogni persona uno dovrebbe sapere come situarsi in rapporto a essa, esser sicuro della reazione che ispira in lui la presenza dell'altro - avversione o attrazione, ascendente subito o imposto, curiosità o diffidenza o indifferenza, dominio o sudditanza, discepolanza o magistero, spettacolo come attore o come spettatore, - e in base a queste e alle controreazioni dell'altro stabilire le regole del gioco da applicare nella loro partita, le mosse e le contromosse da giocare. Per tutto questo uno prima ancora di mettersi a osservare gli altri dovrebbe sapere bene chi è lui. La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso; ed è proprio questa che manca a Palomar. Non solo conoscenza ci vuole, ma comprensione, accordo con i propri mezzi e fini e pulsioni, il che vuol dire possibilità d'esercitare una padronanza sulle proprie inclinazioni e azioni, che le controlli e diriga ma non le coarti e non le soffochi. Le persone di cui egli ammira la giustezza e naturalezza d'ogni parola e d'ogni gesto sono, prima ancora che in pace con l'universo, in pace con se stesse. Palomar, non amandosi, ha sempre fatto in modo di non incontrarsi con se stesso faccia a faccia; è per questo che ha preferito rifugiarsi tra le galassie; ora capisce che è col trovare una pace interiore che doveva cominciare. L'universo forse può andar tranquillo per i fatti suoi; lui certamente no.
La strada che gli resta aperta è questa: si dedicherà d'ora in poi alla conoscenza di se stesso, esplorerà la propria geografia interiore, traccerà il diagramma dei moti del suo animo, ne ricaverà le formule e i teoremi, punterà il suo telescopio sulle orbite tracciate dal corso della sua vita anziché su quelle delle costellazioni. «Non possiamo conoscere nulla d'esterno a noi scavalcando noi stessi, -egli pensa ora, - l'universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi».
Ed ecco che anche questa nuova fase del suo itinerario alla ricerca della saggezza si compie. Finalmente egli potrà spaziare con lo sguardo dentro di sé. Cosa vedrà? Gli apparirà il suo mondo interiore come un calmo immenso ruotare d'una spirale luminosa? Vedrà navigare in silenzio stelle e pianeti sulle parabole e le ellissi che determinano il carattere e il destino? Contemplerà una sfera di circonferenza infinita che ha l'io per centro e il centro in ogni punto?
Apre gli occhi: quel che appare al suo sguardo gli sembra d'averlo già visto tutti i giorni: vie piene di gente che ha fretta e si fa largo a gomitate, senza guardarsi in faccia, tra alte mura spigolose e scrostate. In fondo, il cielo stellato sprizza bagliori intermittenti come un meccanismo inceppato, che sussulta e cigola in tutte le sue giunture non oliate, avamposti d'un universo pericolante, contorto, senza requie come lui.

Italo Calvino, Palomar


Sun, at last




Mi fa male il mondo



    
They need more!


 
 
 


Photo: http://occupygezipics.tumblr.com/









sabato 15 giugno 2013

Dettagli


In seguito a una serie di disavventure intellettuali che non meritano d'essere ricordate, il signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori. 
Un po' miope, distratto, introverso, egli non sembra rientrare per temperamento in quel tipo umano che viene di solito definito un osservatore. Eppure gli è sempre successo che certe cose - un muro di pietre, un guscio di conchiglia, una foglia, una teiera - gli si presentino come chiedendogli un'attenzione minuziosa e prolungata: egli si mette ad osservarle quasi senza rendersene conto e il suo sguardo comincia a percorrere tutti i dettagli, e non riesce più a staccarsene. 
Il signor Palomar ha deciso che d'ora in avanti raddoppierà la sua attenzione: primo, nel non lasciarsi sfuggire questi richiami che gli arrivano dalle cose; secondo, nell'attribuire all'operazione dell'osservare l'importanza che essa merita.

Italo Calvino, Palomar