martedì 27 febbraio 2018

domenica 25 febbraio 2018

sabato 24 febbraio 2018

Pensiero frammentario




A proposito di probità le dirò una cosa. Quando uno comincia a scrivere un saggio di quaranta pagine su qualsiasi argomento, parte da alcune affermazioni preliminari e ne rimane prigioniero. Una certa idea della probità lo obbliga ad andare fino in fondo rispettandole, lo obbliga a non contraddirsi; tuttavia, a mano a mano che prosegue, il testo gli prospetta altre tentazioni, che è costretto a respingere, perché si allontanano dalla via prefissata. Siamo rinchiusi in un cerchio che abbiamo tracciato noi stessi. 
Ed è in questo modo che, volendo essere probi, si cade nella falsità, nella mancanza di veracità. Se questo succede in un saggio di quaranta pagine, che cosa non accadrà in un sistema! Qui sta il dramma di ogni riflessione strutturata: non permettere la contraddizione. E così si cade nel falso, si mente a se stessi per salvaguardare la coerenza. Se invece si compongono frammenti, è possibile dire nello stesso giorno una cosa e il suo contrario. Perché? Perché ogni frammento nasce da un’esperienza diversa, e perché queste esperienze sono vere: sono l’essenziale. Si dirà che ciò significa essere irresponsabili; ma in tal caso lo si sarà al modo stesso in cui è irresponsabile la vita. 
Un pensiero frammentario riflette tutti gli aspetti della tua esperienza; un pensiero sistematico ne riflette uno solo: l’aspetto controllato, e per ciò stesso impoverito. In Nietzsche, in Dostoevskij si esprimono tutti i tipi di umanità possibile, tutte le esperienze. Nel sistema parla solo il controllore, il capo. Il sistema è sempre la voce del capo: proprio per questo ogni sistema è totalitario, mentre il pensiero frammentario rimane libero.

Emile Cioran, Intervista con Fernando Savater


 


Uso dei termini




«Allora, bisogna che qui al nord cominciate a imparare l’uso esatto dei termini e delle locuzioni romane. Sticazzi si usa quando di una cosa non te ne frega niente. Per esempio: Lo sai che Saint-Vincent ha 4.000 abitanti? Sticazzi, puoi dire. Cioè, chissenefrega. Come lo usate voi, Italo, è sbagliato. Devi cercare un ago in un pagliaio? Allora devi dire: mecojoni! Mecojoni indica stupore, lo usi per dire: accidenti! Capisci la differenza Italo? Non puoi usare sticazzi per esprimere meraviglia, sorpresa. Sticazzi lo usi per dire chissenefrega. Ho vinto alla lotteria 40 milioni di euro? Mecojoni, devi dire! Se dici sticazzi significa: non me ne frega niente. Ecco. Ricominciamo. Deruta e D’Intino devono cercare tutti i trans di Aosta e provincia. Tu che devi dire?».
«Mei cojoni?».
«Mecojoni» lo corresse.
«Mecojoni».
«Bravo Italo. Invece che a Courmayeur c’è la funivia?».
«Sticazzi».
«Perfetto. Hai appena imparato l’articolo sette della costituzione romana che recita: uno sticazzi al momento giusto risolve mille problemi.
» 



 





mercoledì 21 febbraio 2018

Batteri resistenti











We are looking away again




This is eastern Ghouta, where hundreds are being killed and injured by Assad’s forces. 'It's not a war. It's a massacre'.
Eastern Ghouta is another Srebrenica, we are looking away again.
(The Guardian)








martedì 20 febbraio 2018

Nostalgia




Quando ero bambino,
la nostalgia era un piccolo francobollo
Io stavo da questa parte
mia madre dall’altra
Quando sono cresciuto
la nostalgia è diventata un biglietto per il traghetto
Io stavo da questa parte
la mia sposa dall’altra
Poi
la nostalgia si è formata in un piccolo sepolcro
Io stavo fuori
mia madre dentro
E adesso
la nostalgia sembra grande per essere un canale
Io sto da questa parte
la mia terra dall’altra


Yu Guangzhong, Nostalgia 




 



No!










lunedì 19 febbraio 2018

Mandala



James Brunt creates artworks using natural objects he finds around his home in Yorkshire, England. From rocks and twigs to leaves and even berries, Brunt arranges the materials into spirals, concentric circles, and other detailed patterns.      
 


 







Fame




Un giorno di agosto del 1968 nuvole nere e basse correvano nel cielo di una piccola città della Nigeria orientale e ogni tanto pioveva. La pioggia cadeva in fasci di gocce enormi che scioglievano la terra rossa delle strade e diventavano torrenti diretti chissà dove. Poi tornava il sole tra il verde della foresta, l’acqua raccolta nell’incavo delle grandi foglie dei banani cessava di zampillare e le ultime gocce si bilanciavano sulla punta di quelle foglie, poi cadevano. In quel momento ricominciava il caldo, la terra rossa si asciugava fumando e negri ridenti vestiti di pezzi di nylon rosa e azzurri sorgevano da sotto i banani e parevano rincorrersi con i piedi con la voce e con le mani. 
Quella piccola città era la capitale di un minuscolo Stato che si chiamava Biafra e che ora non esiste più. Un certo colonnello Ojukwu, un negro pazzo che aveva studiato in Inghilterra aveva fondato quello Stato e un numero immenso di bambini e di vecchi fuggiti dalla foresta a causa della guerra stavano chiusi dentro recinti e vecchie scuole e morivano di fame anche se in città c’erano dei banchetti che vendevano scatolette di cibo a borsa nera. Ma i bambini e i vecchi fuggiti dalla foresta non lo sapevano e se lo sapevano non avrebbero mai avuto i soldi per comperare anche una sola di quelle scatolette. La propaganda del colonnello pazzo voleva che morissero per commuovere il mondo e convincerlo a riconoscere il proprio Stato e ci riuscì, a farli morire, a commuovere il mondo e a farsi riconoscere da qualcuno. Lo Stato durò pochi mesi, la guerra finì e i milioni di morti scomparvero.
In uno di quei recinti sotto il sole e sotto l’ombra delle nubi nere e le docce improvvise, un uomo, un europeo, guardava un bambino nudo. Il bambino non era più completamente nero di pelle, né scuro di capelli perché era diventato quasi roseo e rossiccio di capelli per mancanza di proteine e pareva come spellato. Inoltre era così magro che la pelle sul suo cranio era come seccata dal sole, c’erano molte grinze secche intorno agli occhi e non aveva né collo, né guance, né labbra. Le dita delle mani e dei piedi erano le piccole ossa delle falangi che si muovevano stranamente insieme alle altre ossa dello scheletro. Nell’incavo del bacino aveva una piccola borsa di pelle grinzosa e tutti i suoi movimenti erano molto lenti, ondulati e traballanti. Sorrideva, guardando l’uomo che lo guardava e sorrideva anche ai fotografi che lo fotografavano in massa come sorpreso e lusingato di tanta attenzione. Il suo sorriso era quello di un centenario, che però in quel momento aveva qualcosa da fare, cioè sorrideva con cortesia, ma senza abbandonare il lavoro che lo occupava.
L’uomo che lo guardava da molto tempo aveva visto il bambino raccogliere degli stecchi intorno alla baracca e osservò che per fare questo aveva impiegato più di due ore, prima con piccolissimi mucchi di stecchi intorno a dove si trovava e in seguito riunendoli in un solo mucchio. Poi aveva guardato l’uomo, l’uomo capì lo sguardo, cavò di tasca un accendino e accese gli stecchi che cominciarono subito a bruciare con un po’ di fumo. A questo punto il bambino smise di guardare l’uomo, frugò con le dita dentro la fessura di una baracca, tirò fuori un topo infilato in un grosso stecco e cominciò a farlo girare sul fuoco con molta lentezza e con tutte due le mani. Di tanto intanto alimentava il fuoco con altri stecchi infilandoli con abilità uno sotto l’altro senza far cadere quelli che già bruciavano e diventavano brace. Questo lavoro però lo stancava, allora abbandonava il topo sul fuoco e il topo dopo un po’ friggeva e si gonfiava. Al friggere del topo il bambino pareva svegliarsi e riprendeva in mano lo stecco che faceva girare tra le falangi che parevano molto lunghe, con unghie lunghe. Ma nel fare questo respirava sempre più affannosamente, la cassa toracica si muoveva come un soffietto e dopo pochi minuti il bambino lasciava cadere il topo nella brace. Quello che pareva richiedere al suo corpo una fatica minore era infilare altri stecchi nel fuoco.
Il bambino andò avanti immerso in questi esercizi per circa venti minuti, poi, come definitivamente stanco, ritirò il topo dal fuoco e lo lasciò cadere in disparte, si sdraiò e parve addormentarsi. Ma non dormiva, di tanto in tanto apriva i grossi occhi bianchi e neri molto lucenti e sorrideva all’uomo.
Fu in quei momenti di riposo che sorrise ai fotografi; i fotografi fecero il loro lavoro e se ne andarono. Uno si chiamava André, era un giovanotto grassoccio, sudato, coi capelli rossi dall’odore acre. Strizzò l’occhio a una specie di suo capo senza macchina fotografica, uno magro con un orecchio bucato da una pallottola e disse: «Vachement bon», evidentemente soddisfatto delle fotografie fatte al bambino.
Il bambino pareva veramente dormire, duo o tre volte si scosse come per brutti sogni o per una contrazione dei nervi e mostrò i denti bianchissimi e sporgenti. Ma nemmeno allora dormiva perchè l'uomo notò il sacchetto del ventre muoversi come se contenesse un piccolo animale e un po' di liquido giallastro scorrere sotto l'osso del bacino. Il bambino aprì gli occhi, si accorse di quello che aveva fatto, si alzò traballando e si avviò piano piano fino a un ciuffetto di fogliame con cui si pulì. Poi si lavò prendendo acqua piovana da un secchio di plastica e si asciugò con delle garze che sfilò da un gran pacco sulla porta della baracca. In quei momenti l'uomo distolse gli occhi perchè, da uno sguardo del bambino, capì che non voleva essere guardato. Lo guardò ancora quando il bambino aveva finito del tutto di pulirsi e infatti il bambino sorrise e riprese attentamente il lavoro.
Dalla fessura dove aveva nascosto il topo cavò un vecchio coltello e cominciò a raschiare dal topo tutta la parte carbonizzata. Questo gli portò via molto tempo, sia per la lentezza dei movimenti, sia per la minuzia da vecchio con cui il bambino puliva il topo. Quando fu ben pulito cominciò a mangiarlo dalle natiche verso la schiena. Mangiava a piccoli morsi né abbondanti né voraci come uno che ha poca fame, di tanto in tanto guardava l'uomo con occhi abbastanza indifferenti, faceva piccole pause durante le quali staccava la carne del topo con le unghie e la mangiava con calma osservandola prima di metterla in bocca.
Ricominciò a piovere, l'uomo stette un poco sotto la pioggia, ma poiché la pioggia gli impediva di vedere si rifugiò dentro la baracca dove anche il bambino era entrato dopo aver lasciato cadere a terra quel che restava del topo. Per entrare nella baracca il bambino aveva dovuto alzarsi e fare due gradini: impiegò molto tempo a salire quei gradini, appoggiandosi allo stipite, una volta traballò e stava per cadere quando sopraggiunse l'uomo che lo afferrò per un braccio. Restò in piedi, in equilibrio molto precario sulle ossa delle gambe e tuttavia ne accavallò una come fanno i bambini vivaci e allegri, aggrappandosi però con le falangi della mano allo stipite della porta. L'uomo vide che nell'interno della baracca erano distesi due cadaveri di bambini accanto ai quali stava accosciata una vecchia che piangeva. La pioggia era diventata torrente e portò subito via i resti del topo, anche l'uomo stava appoggiato allo stipite della porta e non guardava più il bambino, guardava il torrente formato dalla pioggia.

Goffredo Parise, da I sillabari


 


domenica 18 febbraio 2018

sabato 17 febbraio 2018

Sindrome da Rassegnazione




È la storia di una malattia dal nome complicato –uppgivenhetssyndrom, che in italiano si traduce con Sindrome da Rassegnazione– che colpisce solo bambini, e soltanto in Svezia.
Il direttore dell’unità psichiatrica dell’ospedale universitario di Stoccolma ne ha raccontato i sintomi: “
I bambini diventato totalmente passivi, immobili, fiacchi, schivi, taciturni, incapaci di mangiare e bere, incontinenti e privi di reazioni dinanzi a stimoli fisici o al dolore. Questi piccoli pazienti vengono chiamati ‘bambini apatici‘”.
Nei casi più gravi i piccoli pazienti cadono in coma, anche per molti mesi. Il fenomeno riguarda soprattutto i bambini, ma tra le vittime ci sono anche degli adolescenti. I casi sono stati documentati anche da
Magnus Wennman, le cui immagini sono tra le finaliste del World Press Photo.
Ma cosa hanno in comune questi bambini e questi ragazzi colpiti dalla Sindrome da Rassegnazione? Sono tutti figli di rifugiati, a cui lo Stato Svedese ha revocato – o rischia di revocare – il permesso di soggiorno.
Bambini che crescono in
famiglie appese al filo del rinnovo, arrivati piccoli, o molto piccoli, in Svezia, cresciuti imparando una lingua e una cultura spesso molto differenti da quelle di mamma e papà, e incastrati in una trafila burocratica che rischia di rispedirli indietro, qualsiasi cosa “indietro” significhi.
Se hanno una cosa in comune, questi bambini figli di molte parti del mondo, è quindi l’insicurezza quotidiana, vissuta in prima persona e filtrata dalla famiglia, in attesa di sapere cosa ne sarà di loro.

Inizialmente, in Svezia, in molti hanno ipotizzato una messinscena da parte di questi bambini catatonici. Ma tutti i medici che hanno preso in carico la questione hanno confermato la profondità della patologia, che nei casi più estremi ha portato i soggetti in uno stato di coma per oltre due anni.
Si tratta quindi di una probabile forma di psicogenesi culturale. Un’alterazione delle funzioni psichiche dalle conseguenze profonde che si presenta seguendo un effetto domino: più casi si presentano e vengono curati, più è facile che se ne sviluppino altri. Il Consiglio Nazionale di Sanità della Svezia ha dichiarato infatti che solo tra il 2015 e il 2016 ci sono stati 169 episodi di SR.
Il neurologo svedese a capo della ricerca sulla strana sindrome all’interno dell’ospedale Pediatrico
Astrid Lindgren di Stoccolma si è espresso più volte in merito alla necessità del rinnovo del permesso per le famiglie di questi bambini, per ottenerne la guarigione, anche se a volte passano mesi tra la conferma della possibilità di permanenza sul suolo svedese e la sparizione di tutti i sintomi della SR.
Gli svedesi hanno quindi dato vita ad una petizione che ha superato le 60.000 firme e che ha ottenuto la revoca della deportazione di 30.000 famiglie con permesso scaduto. 

All’interno di tutti i conflitti e di tutte le migrazioni, i bambini sono sempre vittime
Il bisogno di sicurezza e di chiarezza, che è fondante per chi si trova nella fase dell’infanzia, non può esistere in un contesto di guerra, di fuga, di miseria estrema.
Attraversare precariamente il mondo al seguito dei genitori, in viaggi che a volte durano anni interi, mette a dura prova non solo la sopravvivenza, ma anche la psiche di questi bambini che – una volta giunti a destinazione – avrebbero diritto di potersi fermare, per costruire e ricostruire tutto quello che hanno perso. La
condizione di precarietà legata alle scadenze dei rinnovi non permette di scaricare dalle spalle della famiglia la sensazione di paura, di fragilità, di precarietà, di fuga.
I bambini colpiti da Sindrome da Rassegnazione sono quindi bambini che crollano sotto il peso di una fatica psicologica eccessiva lunga anni e che sembra non avere mai fine. E di una vita che non trova mai casa.
Per questo, quella della
uppgivenhetssyndrom è una storia terribile, ma è una storia necessaria. Perché ci rivela lo stato di salute del mondo.


Djeneta (right) has been bedridden and unresponsive for two and a half years and her sister Ibadeta for more than six months, with uppgivenhetssyndrom (resignation syndrome), in Horndal, Sweden, on March 2, 2017. It is a condition believed to exist only among refugees in Sweden.
 Magnus Wennman / Aftonbladet






venerdì 16 febbraio 2018














Gioie




Una delle gioie della mia vita di adolescente consisteva nella lettura: mi sdraiavo sul mio letto con un libro e diventavo il testo. Se il romanzo era bello, mi trasformavo in lui. Se era mediocre, trascorrevo comunque delle ore meravigliose a godere delle cose che non mi piacevano e a sorridere delle sue occasioni mancate. La lettura non è un piacere sostitutivo. Vista dall'esterno, la mia esistenza era scheletrica; vista dall'interno ispirava quello che ispirano gli appartamenti il cui unico mobilio è una biblioteca stracolma di libri: l'ammirazione gelosa per chi non si sovraccarica del superfluo e trabocca del necessario. Nessuno mi conosceva dall'interno: nessuno sapeva che non ero da compatire, tranne me, e questo mi bastava. Approfittavo della mia invisibilità per leggere giornate intere senza che nessuno se ne accorgesse.

(...) 

Non avevo mai letto tanto come in quel periodo: divoravo libri, sia per compensare le carenze passate sia per affrontare la crisi imminente. Chi crede che leggere sia una fuga è all’opposto della verità: leggere è trovarsi di fronte il reale nella sua massima concentrazione, il che, stranamente, è meno spaventoso che avere a che fare con le sue eterne diluizioni.

Amélie Nothomb, Antichrista






mercoledì 14 febbraio 2018

lunedì 12 febbraio 2018

"Noi"




Dentro il Noi che Sara pronunciava c’era tutta la vita che avremmo fatto insieme, come una valigia riempita fino all’orlo di parole e su cui poi ci si doveva sedere, per poterla chiudere. Perché esistesse quel Noi era necessario che ci fossero dei figli. Perché il suo Noi era: Noi che adesso siamo solo in due ma poi saremo in tre o quattro se non cinque, e vi riempiremo il palazzo di bambini che all’inizio piangeranno un po’, poi usciranno sul balcone con qualcuno che li farà camminare sulle punte e voi potrete salutarli se vorrete, poi sul balcone giocheranno da soli con la faccia dentro la merenda, poi li vedrete uscire dal portone per mano alla madre per andare a scuola, poi li vedrete uscire da soli, fare due metri, voltarsi indietro, girare l’angolo e accendersi una sigaretta, allora ci sentirete litigare con loro e sentirete sbattere le porte, le urla che passeranno da una stanza all’altra della casa, poi ci sentirete litigare tra di noi, tra madre e padre, perché non saremo d’accordo sui modi di educare, e uno di noi lo vedrete uscire nervoso sul balcone a fumare e tornare dentro e di nuovo uscire, e dei nostri figli qualcuno uscirà tutti i pomeriggi e qualcun altro invece starà sempre chiuso in casa, e gli vedrete cambiare le andature giú in cortile, impettirsi sui sederi oppure rimbalzare molleggiati come scimmie, qualcuno aprirà le spalle strafottente e qualcun altro le richiuderà impaurito, e poi cominceranno a portare a casa i fidanzati e le fidanzate e quando vi abituerete a uno di loro di colpo poi non verrà piú, e andranno all’università e li vedrete partire la domenica con un borsone e tornare il sabato con lo stesso borsone piú sformato, e li vedrete portare via le loro poche cose in un trasloco e venire ogni tanto per pranzo la domenica e per Pasqua e per Natale, e noi, noi madre e noi padre, ci vedrete all’improvviso orfani di figli stare seduti per lunghe ore sul balcone senza dirci niente, per poi scattare in casa al suono del telefono e avere di nuovo qualcosa da dirci dopo la telefonata, e poi vedrete delle pance crescere attraversando il cortile insieme ai nostri figli e tutto ricomincerà, e sentirete piangere un’altra volta dentro casa e noi che allora invecchieremo tutto d’un colpo, in uno schianto improvviso, e sorrideremo accontentandoci, affaccendati da questi figli che i nostri figli ci avranno dato al posto loro.

Andrea Bajani, Ogni promessa





domenica 11 febbraio 2018

mercoledì 7 febbraio 2018

martedì 6 febbraio 2018

lunedì 5 febbraio 2018

domenica 4 febbraio 2018

Parole per dirlo




Non hai mai provato la sensazione di avere qualcosa dentro di te che attende per uscire solo l’occasione che tu stesso potresti fornirle? Una specie di eccesso di potenza di cui non si fa uso (…)
Penso ad una strana sensazione che provo in certi momenti, la sensazione di avere qualcosa di importante da dire e il potere di dirlo, ma senza sapere che cosa sia, e non posso far uso di questo potere. Se ci fosse un modo diverso di scrivere (…)
Le cose che scrivo (…) arrivano assai poco lontano. Non sono, per così dire, abbastanza importanti. Sento che potrei fare qualcosa di molto più importante. Sì, di più intenso, di più violento. Ma cosa?  Cosa c’è di più importante da dire? E come si può essere più violenti intorno alle cose di cui si deve scrivere? Le parole possono essere paragonate ai raggi x; se si usano a dovere, attraversano ogni cosa. Leggi, e ti trapassano.

A. Huxley, Il mondo nuovo
 





Animali in corsia











giovedì 1 febbraio 2018

Vivere da antispecisti




L’evidenza empirica ormai non lascia più margine al dubbio sul fatto che gli animali abbiano degli interessi e siano in grado di provare piacere e dolore; il nostro pensiero, pertanto, non può che rimodellarsi sulla base di tali acquisizioni che, da Darwin in poi, sono venute costituendosi come una massa tale da essere difficilmente ignorabile. Solo per fare un esempio ogni anno circa 50 miliardi di animali non umani – senza contare quelli di piccola taglia, tipo conigli e molti pesci che sono venduti a tonnellaggio – passano per il sistema “allevamento intensivo – mattatoio” dove, dopo una vita miserabile caratterizzata da sofferenze inaudite, vengono letteralmente fatti a pezzi per questioni di gusto. E a ben pensarci l’alimentazione è solo una parte del problema: l’intera nostra società si fonda teoricamente e materialmente sulla sofferenza e sulla morte degli animali, dal modo in cui ci vestiamo a quello in cui facciamo ricerca scientifica. Vivere da antispecisti allora vuol dire aver ben chiaro che esiste una violenza “naturale”, su cui possiamo ben poco, e una violenza istituzionalizzata, che invece dobbiamo rigettare. Vivere da antispecisti significa, da un lato, optare per una vita che si impegni ad eliminare dal mondo quanta più sofferenza possibile, diventando vegani e rifiutando ogni prodotto di derivazione animale e, dall’altro, far chiarezza sul fatto, come si alludeva in precedenza, che oppressione animale e oppressione umana sono inestricabilmente correlate e che, quindi, non è possibile pensare di passare da presunzioni gerarchiche a favore di presunzioni ugualitarie senza considerare l’animale, pena la ricaduta in qualche altra forma di illibertà e di sfruttamento.
 
Massimo Filippi










Le spese militari italiane