[…] Ora però sarebbe arrivato un bambino. Alti com’erano i suoi giornalini erano fuori della portata ed anzi del guardo del futuro esserino, tuttavia era bastata una frase muliebre ad allarmarlo: “Pensa a quando i tuoi vecchi fumetti verranno buoni per Filippuccio”. Verranno buoni? Sono stati, furono buoni – avrebbe voluto protestare – e serbano la loro bontà come una luminescenza perpetua.
Ma non parlò, perché subito dovette obbedire al più forte impulso di montare lassù a prendersele, quelle cose benedette sì inopinatamente insidiate.
Ridisceso con tutto il blocco ci soffiò sopra per mandare via il grosso della polvere; poi sciolse lo spago che lo rilegava, e ancora una volta i cimelî si sparsero davanti ai suoi occhi commossi. Li considerò attentamente. Tutti i Tintin; tutti gli album originali di Cocco Bill; tanti L’Uomo Mascherato, pochi Mandrake, un po’ di Nembo Kid, un po’ di Jeff Hawke, le prime tre annate di Linus, quel primo Paperepopea, quel primo Topolineide, due Zio Tibia, ancora qualcosa, ancora qualche sciolta reliquia. Come gli era sempre successo in simili occasioni, fu sufficiente un impercettibile supplemento di indugio su una copertina per cedere all’impulso di sollevarla: e sollevatela, per incominciare a rileggere quella storia; e incominciatela, per giungere fino in fondo. Rilesse così I sigari del faraone, poi Il cosacco Cocco Bill, poi Le sette sfere di cristallo: dopodiché – erano passate più di due ore – si riscosse con un brivido penoso, sospirò profondamente, e disse a sé stesso quanto segue: “È questo un cristallo di sogni, è questo l’unico lampo non triste della vita mia; son documenti, sono fossili di un’età che mi chiede la pietà di un omaggio; sono cadaverini che si rifiutano di morire; sono ciò che solo io so cosa sono. E questo dovrebbe venire “usato”? Dovrebbe tornare “attuale”, domani? Attuale! Questi coaguli mostruosi, questi sovrumani concentrati della mia malinconia, questi monumenti della mia solitudine, queste cose SACRE dovrebbero finire in mano di una creatura (amata, certo, consanguinea, anche) di una creatura sbavante che me li pasticcerà con osceni pastelli, con più oscene penne biro? Sono pregne delle mie continuazioni e rielaborazioni, siffatte entità, incasellano irripetibili giorni, codeste vignette (amati quadrati, adorati rettangoli, emblémata della mia camera, insegne del letto mio), sì, sì, sono storia, museata chiosata laudatissima historia, sono una docta collectio (signata, schedata) che merita scienza, distanza, l’amor che si debbe ai classici (Tacito Proust Guicciardini, Soldino Geppetto Eta Beta), e sono, e son tradizione, e son religione. E son commozione.
(Michele Mari, da “Tu sanguinosa infanzia”)