domenica 22 aprile 2012

Sulla malattia


Carne che si emancipa, che si ribella e non vuole più servire, la malattia è l’apostasia degli organi; ciascuno vuol fare da sé, ciascuno, bruscamente o per gradi, smettendo di stare al gioco, di collaborare con gli altri, si lancia nell’avventura e nel capriccio. Perché la coscienza raggiunga una certa intensità, bisogna che l’organismo patisca e magari si disgreghi: la coscienza, ai suoi inizi, è coscienza degli organi. Quando stiamo bene, li ignoriamo; è la malattia a rivelarceli, a farci capire la loro importanza e la loro fragilità, nonché la nostra dipendenza nei loro confronti. L’insistenza che essa pone nel richiamarci alla loro realtà ha qualcosa di inesorabile; per quanto li si voglia dimenticare, essa non ce lo permette; questa impossibilità dell’oblio, nella quale si esprime il dramma di avere un corpo, riempie lo spazio delle nostre veglie.

Più la coscienza cresce grazie ai nostri malesseri, più dovremmo sentirci liberi. Ma è vero il contrario. Via via che si accumulano le nostre infermità, cadiamo in balia del nostro corpo, i cui capricci equivalgono ad altrettante sentenze.  È lui che ci dirige e ci governa, è lui che ci detta gli umori; ci sorveglia, ci spia, ci tiene sotto tutela, e mentre ci pieghiamo ai suoi voleri e subiamo un asservimento così umiliante, comprendiamo perché, quando stiamo bene, rifiutiamo l’idea di fatalità: il fatto è che, del nostro corpo, che si fa sentire a malapena, praticamente non percepiamo l’esistenza. Se, nella salute, gli organi sono discreti, nella malattia, impazienti di distinguersi, entrano in concorrenza fra loro e fanno a chi attira di più la nostra attenzione.  Quello che ha la meglio mantiene il vantaggio solo in virtù di un eccesso di zelo; ma è una fatica che lo logora, ed ecco quindi che verrà sostituito da un altro più intraprendente e più vigoroso. La cosa spiacevole di questa rivalità è che si sia costretti a esserne nel contempo oggetti e testimoni.

Ognuno di noi è il prodotto dei suoi mali passati e, se è ansioso, dei suoi mali futuri. Alla malattia vaga, indeterminata, di essere uomo, se ne aggiungono altre, molteplici e precise, che insorgono tutte per avvertirci che la vita è uno stato assoluto di insicurezza, che è provvisoria per definizione, che rappresenta un modo di esistenza accidentale. Ma se la vita è un accidente, l’individuo è accidente di un accidente.

Non esiste guarigione, o piuttosto tutte le malattie di cui siamo «guariti» le portiamo in noi e non ci lasciano mai. Incurabili o no, sono presenti per impedire che il dolore si risolva in una sensazione diffusa: esse lo nutrono, lo organizzano, lo regolamentano... Sono state chiamate le «idee fisse» degli organi. In effetti fanno pensare a organi in preda all’ossessione, non più in grado di sottrarvisi, in balia di turbe mirate, prevedibili, prigionieri di un incubo metodico, monotono come una fissazione.

Finché si sta bene, non si esiste.  Più esattamente: non si sa di esistere. Il malato insegue il nulla della salute, l’ignoranza di essere: lo esaspera sapere a ogni istante che ha tutto l’universo di fronte, senza alcuna possibilità di farne parte, di perdervisi. Il suo ideale sarebbe quello di dimenticare tutto e, liberato dal peso del proprio passato, risvegliarsi un bel giorno nudo dinanzi all’avvenire.


(Emile Cioran)




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