Forse la vera ragione per
smettere di scrivere è che sto invecchiando. Sono vecchia. Quando
succede, fare le cose che devi fare richiede sempre più tempo e
concentrazione. Pagare le bollette, ricordarti quando passa il camion della
spazzatura, fare la raccolta differenziata, donare soldi a tutte quelle buone
cause che hai promesso a te stessa di sostenere.
Mantenere l’ordine intorno a
te. Il disordine è molto più minaccioso di una volta – non è più perdonabile e
disarmante, né un segno della propria creatività, ma una prova dell’arrivo
della demenza senile, decisamente poco affascinante. In effetti è meno
affascinante, la demenza, nelle donne che negli uomini. Lo stesso vale per
l’aspetto fisico da mantenere presentabile. Richiede sempre più sforzo, non
tanto arrestare il deterioramento quanto rallentarlo in modo che risulti
accettabile a te stessa e agli altri. Tutte le pillole e gli esami e gli
esercizi.
Non puoi più martellare sui
tasti, rapita alle tre di notte dal finale di una storia. Non puoi più essere
il grande scrittore, quello con il brutto carattere e le cattive abitudini e la
genialità graffiante dei vecchi film. Non che io lo sia mai stata (in effetti
non ricordo che nessuno di questi geni sia mai stato una donna), ma l’idea è
sempre sopravvissuta da qualche parte nella mia testa, come qualcosa che un
giorno avrei potuto provare a essere.
Insomma: smetterei di scrivere
per avere una vita più gestibile. E poi so che è molto raro produrre un
capolavoro in questi ultimi anni di vita, e uno o due libri in meno non
sarebbero una gran perdita per nessuno. Di sicuro non mi mancherà quel tormento
– i tentativi a vuoto necessari perché una storia sia buona – o il vero e proprio
orrore che provo nell’attesa che il libro venga pubblicato, per poi dar fondo
al mio coraggio e uscire di casa ed esserne responsabile nel vasto mondo (in
realtà sembra che sia vasto, ma il mondo dell’editoria, della critica
letteraria, del pubblico dei lettori, è così piccolo che la maggior parte della
gente che vive nel tuo paese, perfino nella tua cittadina, non saprà mai il tuo
nome).
Non mi perderò niente,
davvero.
Ma aspetta un attimo: che cosa
c’era di così meraviglioso? Che cosa lo faceva sembrare irresistibile? Che cosa
rendeva trascurabili questi inconvenienti? Se non è quando stai componendo il
lavoro, non quando lo mandi all’editore, non quando ce l’hai in mano stampato,
né quando lo leggi in pubblico o lo vedi entrare in classifica (e cominci a
preoccuparti di quando ne uscirà), e nemmeno quando vince un premio, anche se
devi ammettere che vincerlo è meglio che non vincerlo, allora quando è?
Il momento non è forse quello
in cui hai l’idea, o meglio inciampi nell’idea, ci sbatti contro, come se
stesse vagando da sempre nella tua testa? È già lì, ancora senza lineamenti
precisi, ma armoniosa e brillante. Non è la storia. È lo spirito, il centro
della storia, qualcosa che non è fatto di parole, ma che può sorgere alla vita,
almeno a una vita pubblica, soltanto quando le parole lo avvolgono. Un oggetto
ancora non guastato, ancora protetto dalle interferenze. In una forma più bella
di quella che avrà mai, dopo essere stato stirato e schiacciato dentro le tue
frasi. Pensa di poter essere soddisfatta da questo incontro soltanto, dal
riconoscerlo e poi lasciarlo solo. Come sarebbe?
Vedremo.
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