martedì 4 dicembre 2012

Crollo


Basti dire che dopo un’oretta di abbracci solitari col cuscino iniziai a rendermi conto di come da un paio d’anni la mia vita attingesse a risorse che non possedevo, mentre avevo ipotecato fisicamente e spiritualmente fino all’osso la mia persona. Mi restituivano la vita – sai che regalo rispetto a prima, quando potevo vantare un indirizzo e fare assegnamento su una indipendenza a tutta prova.
Mi resi conto che in quei due anni, per salvaguardare qualcosa – una quiete interiore, forse, forse no –, mi ero svezzato da tutte le cose da me amate fino a quel momento – che ogni gesto della vita, dallo spazzolino da denti la mattina all’amico a cena, richiedeva uno sforzo. Mi accorsi che da molto tempo non mi piacevano più né le persone né le cose, ma mi limitavo a proseguire nella solita stenta messinscena. Mi accorsi che anche l’amore per quelli a me più vicini si era ridotto solo a un tentativo di amare, che i miei rapporti occasionali – con il direttore di un giornale, il tabaccaio, il figlio di un amico – erano solo improntati al ricordo di quanto, in circostanze analoghe, andasse fatto. Nel giro di un mese eccomi insofferente al suono della radio, alla pubblicità sulle riviste, allo stridio dei binari, al silenzio di tomba della campagna: sprezzante verso la mollezza umana, sempre pronto a inalberarmi (senza espormi però) di fronte alla durezza: odiavo la notte, che m’impediva di dormire, e odiavo il giorno, perché andava incontro alla notte. Dormivo dalla parte del cuore, ora, sbrigandomi sia pur di poco a fiaccarlo: consapevole così di anticipare l’ora benedetta dell’incubo che, come una catarsi, mi avrebbe permesso di affrontare meglio il nuovo giorno.


 Francis Scott Fitzgerald, Il crollo



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