L’ipocondria è una malattia fondata sull’equivoco. Il corpo dice una cosa: ho una fitta alle costole perché ho preso freddo, e l’io ne intende un’altra: il sospetto di un infarto. Dunque, si tratta di un equivoco che si produce all’interno della stessa persona e possiamo considerarlo come il prototipo di tutti gli equivoci in cui siamo quotidianamente immersi. Tutta la cosiddetta vita amorosa non è altro che un reticolo fittissimo di equivoci. Ovviamente più ne siamo vittime e più cerchiamo di affrancarcene. Qui le strade sono due. Il ritiro dell’investimento emotivo sugli altri secondo un modello narcisistico che espone a tante malattie, tra cui l’ipocondria. Oppure, il reinvestimento su altri oggetti che possano risultare più appaganti. Tale speranza è inesorabilmente esposta a essere delusa, ed ecco che ci ritroviamo in una bizzarra tenaglia: o si dà l’equivoco con noi stessi o si ha l’equivoco con gli altri. E se anche questa tenaglia in determinati momenti dovesse risultare inattiva ecco che emerge quello che potremmo chiamare l’equivoco di fondo, quello con la realtà. La sottile meraviglia della vita quotidiana diventa praticamente impercepibile se non quando ci accade un incidente e osserviamo gli altri che questo incidente non hanno subito. In questo caso ci pare di comprendere che è in funzione un perenne disturbo nel nostro rapporto con la realtà, un disturbo che porta a considerarla come una sorta di sacca da riempire o da svuotare a seconda dei casi. Invece, la realtà è una superficie liscia, ubiqua, a cui semplicemente apparteniamo. Da questo punto di vista l’ipocondria è una forma grossolana di inappartenenza alla realtà. Stiamo davanti a essa come davanti a un vaso di Pandora da cui prima o poi può uscire la sorpresa fatale. L’equivoco consiste nel non considerare che la sorpresa è sempre in essere, che l’apparire del sole o alzare un braccio o ascoltare il canto degli uccelli, sono fusi meravigliosamente in un unico immenso affresco.
Dio e il nulla non sono i padrini della vita e della morte e noi non siamo figli dell’uno o dell’altro. Forse l’uomo dei prossimi decenni è chiamato a fondere in sé l’elemento religioso e quello nichilista dentro la semplice, sottile meraviglia della vita quotidiana. La scrittura è l’ago per cucire l’intreccio, ma il filo dobbiamo metterlo noi; il filo è il nostro corpo e il suo generoso dispendio. Ancora una volta siamo ben lontani dall’ottica ipocondriaca che considera il corpo merce da preservare. L’ipocondriaco si comporta come se volesse costruire una cassaforte intorno al corpo, illudendosi di poterne uscire a piacimento. Ancora un equivoco. Nel momento in cui non facciamo dono di noi stessi, in quel preciso momento siamo perduti. Non c’è bisogno di pensare a perdite future.
Franco Arminio, Circo dell’ipocondria
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