Esce la biografia di D. T. Max dedicata allo scrittore americano
scomparso nel 2008. Vita, opere e ombre del personaggio D. F. Wallace.
Verso Wallace non si prova la mera curiosità morbosa che
tipicamente investe la vita delle star (e Wallace una star lo era, volente o
nolente, comunque dolente). Agisce invece un meccanismo di relazione letteraria
fra autore e lettore innescato dallo stesso, e pur schivo, Wallace. La sua
morte ha infine evidenziato i punti di contatto tra le vicende di dipendenza e
di paralisi relazionali di cui scriveva e quelle che viveva. Difficile
attenersi alle prime, come se le seconde non vi fossero impigliate
intrinsecamente.(…)
Informatissimo, asciutto eppure struggente, il libro di D. T. Max
(collaboratore del New Yorker di cui nessuno conosce generalità più
complete) mostra come Wallace sia stato autore anche di sé stesso (…)
Uno scrittore dai talenti così sorprendenti, dallo stile così
sfaccettato e dalla capacità tanto estrema di entrare in relazione diretta con
i suoi lettori (riuscendo, come si proponeva, a far loro «palpitare le teste
come cuori») è quasi inevitabile sia promosso post mortem a santino, o santone.
Max evita dissacrazioni brutali, ma pure non tace vizi, bugie, comportamenti in
parte artificiali del suo eroe, che usualmente era invece sincero, onesto e
generoso. (…)
È forse un paradosso, ma sono invece proprio quei lati deboli a
farci riconsiderare la potenza della scrittura di Wallace e a farcelo (e
farcela) ammirare se possibile ancor più di prima. Fosse stato un nerd, nato in
una famiglia agiata e benestante, formato in scuole esclusive, di psiche pacata
e abitudini salubri, sarebbe più facile accettare la cultura enciclopedica, la
scrittura impeccabile, la profondità di analisi, lo humour irresistibile, la
genialità di un’inventiva e di un pensiero che in solido hanno rivoluzionato la
scena letteraria occidentale. Ma Wallace, al contrario, ha fatto scuole
normalissime, la sua famiglia ha vissuto anche traversie dolorose (seppure non
straordinarie), è stato a lungo dipendente da marijuana, alcool, forse anche
sesso, e al secondo anno di università (quando era già riconosciuto come uno
studente eccezionale) ha avuto la prima crisi depressiva di quella serie che
gli avrebbe concesso pochi intervalli di serenità, artistica e personale. È a
un uomo così travagliato che dobbiamo un’opera tanto splendente. (…)
A un certo punto della sua maturazione artistica, fra la
superiorità consolatoria dell’ironia e la più pervasiva e misteriosa umiltà del
luogo comune, Wallace ha scelto la seconda, calandosi sino ai fondamenti ultimi
della banalità e della solitudine occidentale. Ha così prosciugato la scrittura
e arginato volontariamente il proprio talento comico debordante; ma ha anche
continuato a frammentare ed eludere i meccanismi della piacevolezza romanzesca,
convinto com’era che sia cruciale non ricadere nell’equivoco
dell’intrattenimento e che lo sforzo che uno scrittore chiede ai lettori non è
per sé: lo chiede proprio per loro. Né la mancanza di soluzioni esplicite dei
suoi enigmi narrativi è incompiutezza: è, piuttosto, la rappresentazione
assieme letteraria e metaletteraria di un buco, del vuoto che ogni arte
d’intrattenimento finge di riempire, ottenendo solo di sviluppare una nuova
dipendenza per l’intrattenimento stesso. (…)
È allora opportuna e bella la coerenza con cui il biografo non si
sogna di poter offrire una soluzione all’enigma aggiuntivo e ultimo, incarnato
dal protagonista del suo libro: l’autore che ha sempre usato le armi della
reticenza e del taglio improvviso per sottrarre il destino dei suoi personaggi
dalla disponibilità immediata dei lettori (ma non dalla loro possibile
comprensione), e infine, autore anche del suo personaggio, se n’è servito per
interrompere la sua stessa vita.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica, 21/05/2013
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