lunedì 30 settembre 2013
Solitudine
Questa è una cosa che detesto: la gente
che quando stai da solo lo trasforma in un problema suo. (…) La mia solitudine
le dava fastidio: è come quando sei seduto in metropolitana e non sopporti
quelli che stanno in piedi. Sembra che lo facciano apposta per farti sentire a
disagio. Certe volte ci sono addirittura dei posti liberi - un mezzo spazio fra
due grassoni seduti a gambe larghe -, ma loro non si siedono, restano lì con
l'aria esausta e afflitta come se volessero farti pesare che sei seduto.
Peter
Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà
utile
domenica 29 settembre 2013
Campania Felix
Andiamo in giro ovunque
ma non è chiaro
se esiste ancora il mondo.
Nei luoghi più ricchi, più civili
un senso di stanchezza
e di muffa ben confezionata.
Allora bisogna scendere
nel Basso Occidente,
nei luoghi dove la terra
perde sangue,
e basta innaffiare un orto
perché diventi casa e pioggia nera.
È il delirio di costruire una città
sopra uno straccio e poi girarci dentro
mischiando frutteti e capannoni,
casolari e officine,
le coste dei negozi, i fiordi delle ville,
i porti delle pompe di benzina.
Da Salerno a Napoli
l’autostrada attraversa una città
che si ferma solo davanti alle montagne.
Angri, Scafati, Nocera e Pagani
arresi bruciano nel giorno estivo,
ognuno è vicino alla sua polvere,
ovunque puoi vedere
che si è persa la faticosa dolcezza
della campagna.
L’agro nocerino-sarnese
è un immenso campo di crisantemi
in cemento armato. Nocera superiore:
case e centri commerciali,
cantieri, ponti, viadotti, officine,
tutto sparpagliato e incollato dalle mani di un cieco.
Angri e oltre:
lettiera per cavalli,
anziano seduto accanto alle sue stampelle
che si gode il traffico e i suoi dolori,
casa ecocompatibile,
l’outlet dell’elettrodomestico,
lavatrici sui marciapiedi,
il parcheggio Tre monelli,
si prenotano carciofi arrostiti,
Outlet pastore,
Caffetteria Gesù bambino:
sala interna-rosticceria-pasticceria.
Pagani: la statale, l’autostrada e la ferrovia
attraversano il paese,
si vive in una sorta di tapis roulant,
un movimento frenetico che non fa nascere
l’idea di fuggire.
Appena si forma un buco
subito arriva un’auto a colmarlo.
Torre del Greco, Portici, Ercolano,
incauti nei metalli delle auto
i topi affaccendati nell’andare,
nel tentativo folle di gremire
le zolle ancora calde della lava.
Mariconda (frazione di Pompei):
La pizza del poeta,
Panuozzo più due bottiglie d’acqua: 4 euro,
Macelleria Al vero vitello.
Gragnano:
Studio fotografico Fotoromanzo,
Università della pasta,
Pizzeria Strapizzami,
Parrucchiere Idee per la testa,
Show Room Infissi.
Napoli è foderata nel rumore,
dentro c’è ancora qualcosa,
da fuori è un purgatorio di palazzi,
una teca di lampi orizzontali.
Se prosegui sul rigo della costa
non c’è speranza di trovare
il vuoto, la gialla solitudine
lucana. Sto passando dentro
il vicolo cieco del fervore:
Arzano, Acerra, Afragola.
La Campania delle pianure
accoglie una fittissima maglia di rumori,
una perenne apocalisse sonora
da cui sono esenti solo i morti dentro i cimiteri.
Prima ogni posto aveva un suo respiro
e per vederlo salivi le scale,
ogni luogo era una stanza intima,
lingua cupa, mandibola
feroce. Ora in giro c’è un’aria
di sconfitta, un rosario di facce
innervosite da una smania senza fondo.
A Marigliano
le strade sono molto dissestate:
miserie pubbliche e ricchezze private.
È un susseguirsi di cancelli,
cancelli dei parchi, cancelli delle case.
Nessuno si fida più di nessuno.
Afragola, perfettamente congiunta
con Casoria e Cardito, è in mezzo a una selva
di paesi giganti
che insieme fanno ottocentomila abitanti.
I paesi hanno due malattie.
Quelli più piccoli una malattia anginosa,
con le vene che si restringono e poi si chiudono.
Quelli più grandi una malattia da dilatazione,
come se fossero dissanguati da un aneurisma squarciato.
Il cuore nero dell’Occidente è qui sull’Asse Mediano
dove i cumuli di spazzatura impediscono
le fermate nelle aree di emergenza.
Ho una lieve e inspiegabile euforia,
come se il disordine e l’incuria
tonificassero la mia anima.
Non so se sono a Casalnuovo,
comunque noto un’enorme quantità
di istituti scolastici paritari
e molti centri estetici di lusso.
A Casoria
la piazza è una distesa di Suv
con i vetri oscurati,
parcheggiati in doppia e in tripla fila.
Caivano ti accoglie
con una serie di palazzine popolari
dipinte in verde pisello.
Guardo cose che si possono vedere
ovunque: un cane che dorme
e un bambino col telefonino.
Gli esercizi commerciali più importanti
sono in periferia,
in modo da servire più paesi.
Casavatore
è un luogo sfilacciato, desolante,
una teoria di case dimesse o mal costruite.
Poi palazzi a più piani e i soliti negozi,
parrucchieri, alimentari, abiti e motori.
Le insegne dicono che è già Caserta,
in queste chiese aperte
sul catrame, il traffico
è un dialetto universale
che affida il suo implacabile
ronzio
alle pietre tostate dell’asfalto.
Se noi aprissimo i tendini ad ognuno,
se andassimo a spiare
dietro lo sterno, avremmo un senso
di giornate guaste,
di anime parlanti senza tregua
le anime degli altri e di noi stessi,
noi che non sappiamo annodarci
a niente e ci spartiamo
questa evanescenza
perché il volere appartiene
ai più furbi,
gli innocenti indugiano, si astengono.
Caserta
sensazione di una città senza radici,
un allegato alla reggia,
invaso da negozi e macchinoni.
All’uscita di Caserta sud
file interminabili di camion.
Un tir davanti a me inizia a suonare
all’impazzata, un altro trasporta i Tic Tac,
un intero camion pieno di caramelle
alla menta: impressionante.
Sembra di stare su una pista da gioco per bambini,
con le sue curve a otto.
Cartello con la scritta Interporto sud Europa,
piattaforma del continente Europa.
Ho un senso di fastidio.
L’Europa che vedo è una giostra di camion.
Su questa giostra ci sto anche io.
Sono in macchina, avanzo su una strada
leggermente rialzata che taglia l’esteso
ematoma urbanistico di Aversa.
Vedo un’infinità di tegole e pochissimi alberi.
Appena c’è un po’ di verde è sempre circondato
da grandi muri di cemento,
già pronto per essere lottizzato,
già predestinato alla scomparsa.
In questi territori è avvenuta una battaglia
tra il pieno e il vuoto e ha vinto il pieno,
un pieno fatto di automobili e di tutto quello
che ruota intorno alle automobili.
A Santa Maria un piccione bianco,
due cani che dormono,
una pietra a forma di fallo.
Una strana scritta su un muro:
comunisti = camorra,
la pubblicità di un centro commerciale
che promette il risveglio dei sensi,
uno spazio di scivoli e altalene
presentato come parco per i diritti dei bambini.
Vago sulla Nola-Villa Literno,
è un lungo giorno senza miraggi,
guardo le cose e non le porto dentro,
le lascio sparpagliate
dove sono: tre vecchi incollati davanti
a un bar, una signora con la cipria
negli occhi. Intanto ho già contato
cinque gatti straziati
sulla strada,
c’è sempre un frettoloso che li uccide.
Gli abitanti riescono a sopportare
il peso di questi luoghi
con un naturale disincanto
che li fa partecipare a questo perenne
carnevale del caos
senza prendersi troppo sul serio.
È come se avessero capito l’imbroglio
che sta sotto la cosiddetta vita sociale moderna.
È il fondo filosofico
di questa gente, una sorta di renitenza
alla leva del progresso:
se ne accettano gli arredi, le merci,
si resta con un cuore adolescente,
pronto allo spreco più che all’efficienza.
Non ho schiodato i polsi
dal volante, non ho nessuno che mi fa
domande e mi faccio una strana
compagnia senza pensare
neppure alla morte.
Giugliano:
c’è più gente qui che in tutti i paesi
della provincia di Campobasso
e basterebbe questo per dire dello squilibrio folle
tra il Sud dei monti e quello delle pianure.
Tutto è dedicato
a nostra signora automobile:
rivendite lussuose e di seconda mano,
carrozzerie, officine, scuole guida,
assicurazioni, gommisti, pompe di benzina.
Un negozio vende solo parabrezza,
un altro solo copri cerchioni.
L’altro fuoco dei commerci è la famiglia:
i negozi di bomboniere e di mobili,
le vetrine con gli abiti da sposa,
i ristoranti per le nozze, per le cresime e i battesimi.
Gricignano, Sant’Antimo, Succivo
li ho visti altre volte insieme
a Grazzanise. Ora arrivo estenuato
non so come a un piccolo paese
che ha due nomi, Cancello e Arnone,
cerco il mare e ancora non lo trovo.
Ogni paese in verità è un mistero,
un soffio della vita diverso in ogni luogo.
Ogni paese sarebbe da vedere come una nicchia,
un affresco, un santuario della geografia.
Ecco Castelvolturno,
qui l’Occidente si è carbonizzato,
aria africana, insegne
smisurate, la parola caseificio
come un mantra.
Provo un sentimento di clemenza
per le cose che ho visto,
per i luoghi che ho visitato.
Tutto mi appare perso e irrecuperabile.
Forse da questa idea nasce la consolazione
che non c’è spazio per ferire ancora
un territorio martoriato, e che, d’ora in poi,
magari per errore, i suoi abitanti
saranno costretti a imboccare vie più virtuose
Ecco il villaggio Coppola,
dove il sogno del turismo
ha generato una foresta di rovine.
In tutta questa zona puoi vedere
l’impero romano alla rovescia:
tutto quello che fu gloria
e conquista, adesso è fallimento
grattugiato sulle spalle di chi resta.
Mi fermo per il solito panino,
lo mangio mentre arrivo a Mondragone.
Ora il disordine è meno perentorio,
posso avanzare verso il Garigliano.
Cerco la centrale nucleare,
l’epicentro del guasto e degli errori.
Il pericolo se c’è non si vede,
non si capisce se credere a chi allarma
o a chi rassicura, nel dubbio stacco
dal ramo un’albicocca,
il mio spavento è per il prossimo minuto
per il gomitolo di vene nella testa
per il cuore che non sa darsi pace.
Comunque nella zona non si vede
il disordine e lo scompiglio
di cui mi avevano parlato
e quando cautamente
arrivo al mare
la spiaggia mi pare vuota e felice,
vedo una famiglia che gioca
a bocce, due ragazze che con aria stupida
mi dicono di non fotografare:
certe persone sono le spie
le spine di un paesaggio rotto.
Il Garigliano è la boa del mio viaggio,
posso tornare indietro
a ripassare gli epigrammi
del caos, le lettere
delle discariche e delle puttane,
gli aforismi nei lampi dei semafori
e il racconto insulso dei palazzi.
Oggi neppure so tornare a casa,
al mio paese non c’è più mia madre
che accendeva per me candele d’ansia.
Sulle alture irpine non sento
niente, anche qui solo un mucchio
di tegole.
Guardo la ruggine sul palo di un lampione,
gli occhi di un cane zoppo,
la busta con il pane
che una vecchia porta a spasso per il paese:
cose inutili, intimamente clamorose.
Quello che c’era sotto
adesso è morto,
però rimane sempre qualche crepa.
ma non è chiaro
se esiste ancora il mondo.
Nei luoghi più ricchi, più civili
un senso di stanchezza
e di muffa ben confezionata.
Allora bisogna scendere
nel Basso Occidente,
nei luoghi dove la terra
perde sangue,
e basta innaffiare un orto
perché diventi casa e pioggia nera.
È il delirio di costruire una città
sopra uno straccio e poi girarci dentro
mischiando frutteti e capannoni,
casolari e officine,
le coste dei negozi, i fiordi delle ville,
i porti delle pompe di benzina.
Da Salerno a Napoli
l’autostrada attraversa una città
che si ferma solo davanti alle montagne.
Angri, Scafati, Nocera e Pagani
arresi bruciano nel giorno estivo,
ognuno è vicino alla sua polvere,
ovunque puoi vedere
che si è persa la faticosa dolcezza
della campagna.
L’agro nocerino-sarnese
è un immenso campo di crisantemi
in cemento armato. Nocera superiore:
case e centri commerciali,
cantieri, ponti, viadotti, officine,
tutto sparpagliato e incollato dalle mani di un cieco.
Angri e oltre:
lettiera per cavalli,
anziano seduto accanto alle sue stampelle
che si gode il traffico e i suoi dolori,
casa ecocompatibile,
l’outlet dell’elettrodomestico,
lavatrici sui marciapiedi,
il parcheggio Tre monelli,
si prenotano carciofi arrostiti,
Outlet pastore,
Caffetteria Gesù bambino:
sala interna-rosticceria-pasticceria.
Pagani: la statale, l’autostrada e la ferrovia
attraversano il paese,
si vive in una sorta di tapis roulant,
un movimento frenetico che non fa nascere
l’idea di fuggire.
Appena si forma un buco
subito arriva un’auto a colmarlo.
Torre del Greco, Portici, Ercolano,
incauti nei metalli delle auto
i topi affaccendati nell’andare,
nel tentativo folle di gremire
le zolle ancora calde della lava.
Mariconda (frazione di Pompei):
La pizza del poeta,
Panuozzo più due bottiglie d’acqua: 4 euro,
Macelleria Al vero vitello.
Gragnano:
Studio fotografico Fotoromanzo,
Università della pasta,
Pizzeria Strapizzami,
Parrucchiere Idee per la testa,
Show Room Infissi.
Napoli è foderata nel rumore,
dentro c’è ancora qualcosa,
da fuori è un purgatorio di palazzi,
una teca di lampi orizzontali.
Se prosegui sul rigo della costa
non c’è speranza di trovare
il vuoto, la gialla solitudine
lucana. Sto passando dentro
il vicolo cieco del fervore:
Arzano, Acerra, Afragola.
La Campania delle pianure
accoglie una fittissima maglia di rumori,
una perenne apocalisse sonora
da cui sono esenti solo i morti dentro i cimiteri.
Prima ogni posto aveva un suo respiro
e per vederlo salivi le scale,
ogni luogo era una stanza intima,
lingua cupa, mandibola
feroce. Ora in giro c’è un’aria
di sconfitta, un rosario di facce
innervosite da una smania senza fondo.
A Marigliano
le strade sono molto dissestate:
miserie pubbliche e ricchezze private.
È un susseguirsi di cancelli,
cancelli dei parchi, cancelli delle case.
Nessuno si fida più di nessuno.
Afragola, perfettamente congiunta
con Casoria e Cardito, è in mezzo a una selva
di paesi giganti
che insieme fanno ottocentomila abitanti.
I paesi hanno due malattie.
Quelli più piccoli una malattia anginosa,
con le vene che si restringono e poi si chiudono.
Quelli più grandi una malattia da dilatazione,
come se fossero dissanguati da un aneurisma squarciato.
Il cuore nero dell’Occidente è qui sull’Asse Mediano
dove i cumuli di spazzatura impediscono
le fermate nelle aree di emergenza.
Ho una lieve e inspiegabile euforia,
come se il disordine e l’incuria
tonificassero la mia anima.
Non so se sono a Casalnuovo,
comunque noto un’enorme quantità
di istituti scolastici paritari
e molti centri estetici di lusso.
A Casoria
la piazza è una distesa di Suv
con i vetri oscurati,
parcheggiati in doppia e in tripla fila.
Caivano ti accoglie
con una serie di palazzine popolari
dipinte in verde pisello.
Guardo cose che si possono vedere
ovunque: un cane che dorme
e un bambino col telefonino.
Gli esercizi commerciali più importanti
sono in periferia,
in modo da servire più paesi.
Casavatore
è un luogo sfilacciato, desolante,
una teoria di case dimesse o mal costruite.
Poi palazzi a più piani e i soliti negozi,
parrucchieri, alimentari, abiti e motori.
Le insegne dicono che è già Caserta,
in queste chiese aperte
sul catrame, il traffico
è un dialetto universale
che affida il suo implacabile
ronzio
alle pietre tostate dell’asfalto.
Se noi aprissimo i tendini ad ognuno,
se andassimo a spiare
dietro lo sterno, avremmo un senso
di giornate guaste,
di anime parlanti senza tregua
le anime degli altri e di noi stessi,
noi che non sappiamo annodarci
a niente e ci spartiamo
questa evanescenza
perché il volere appartiene
ai più furbi,
gli innocenti indugiano, si astengono.
Caserta
sensazione di una città senza radici,
un allegato alla reggia,
invaso da negozi e macchinoni.
All’uscita di Caserta sud
file interminabili di camion.
Un tir davanti a me inizia a suonare
all’impazzata, un altro trasporta i Tic Tac,
un intero camion pieno di caramelle
alla menta: impressionante.
Sembra di stare su una pista da gioco per bambini,
con le sue curve a otto.
Cartello con la scritta Interporto sud Europa,
piattaforma del continente Europa.
Ho un senso di fastidio.
L’Europa che vedo è una giostra di camion.
Su questa giostra ci sto anche io.
Sono in macchina, avanzo su una strada
leggermente rialzata che taglia l’esteso
ematoma urbanistico di Aversa.
Vedo un’infinità di tegole e pochissimi alberi.
Appena c’è un po’ di verde è sempre circondato
da grandi muri di cemento,
già pronto per essere lottizzato,
già predestinato alla scomparsa.
In questi territori è avvenuta una battaglia
tra il pieno e il vuoto e ha vinto il pieno,
un pieno fatto di automobili e di tutto quello
che ruota intorno alle automobili.
A Santa Maria un piccione bianco,
due cani che dormono,
una pietra a forma di fallo.
Una strana scritta su un muro:
comunisti = camorra,
la pubblicità di un centro commerciale
che promette il risveglio dei sensi,
uno spazio di scivoli e altalene
presentato come parco per i diritti dei bambini.
Vago sulla Nola-Villa Literno,
è un lungo giorno senza miraggi,
guardo le cose e non le porto dentro,
le lascio sparpagliate
dove sono: tre vecchi incollati davanti
a un bar, una signora con la cipria
negli occhi. Intanto ho già contato
cinque gatti straziati
sulla strada,
c’è sempre un frettoloso che li uccide.
Gli abitanti riescono a sopportare
il peso di questi luoghi
con un naturale disincanto
che li fa partecipare a questo perenne
carnevale del caos
senza prendersi troppo sul serio.
È come se avessero capito l’imbroglio
che sta sotto la cosiddetta vita sociale moderna.
È il fondo filosofico
di questa gente, una sorta di renitenza
alla leva del progresso:
se ne accettano gli arredi, le merci,
si resta con un cuore adolescente,
pronto allo spreco più che all’efficienza.
Non ho schiodato i polsi
dal volante, non ho nessuno che mi fa
domande e mi faccio una strana
compagnia senza pensare
neppure alla morte.
Giugliano:
c’è più gente qui che in tutti i paesi
della provincia di Campobasso
e basterebbe questo per dire dello squilibrio folle
tra il Sud dei monti e quello delle pianure.
Tutto è dedicato
a nostra signora automobile:
rivendite lussuose e di seconda mano,
carrozzerie, officine, scuole guida,
assicurazioni, gommisti, pompe di benzina.
Un negozio vende solo parabrezza,
un altro solo copri cerchioni.
L’altro fuoco dei commerci è la famiglia:
i negozi di bomboniere e di mobili,
le vetrine con gli abiti da sposa,
i ristoranti per le nozze, per le cresime e i battesimi.
Gricignano, Sant’Antimo, Succivo
li ho visti altre volte insieme
a Grazzanise. Ora arrivo estenuato
non so come a un piccolo paese
che ha due nomi, Cancello e Arnone,
cerco il mare e ancora non lo trovo.
Ogni paese in verità è un mistero,
un soffio della vita diverso in ogni luogo.
Ogni paese sarebbe da vedere come una nicchia,
un affresco, un santuario della geografia.
Ecco Castelvolturno,
qui l’Occidente si è carbonizzato,
aria africana, insegne
smisurate, la parola caseificio
come un mantra.
Provo un sentimento di clemenza
per le cose che ho visto,
per i luoghi che ho visitato.
Tutto mi appare perso e irrecuperabile.
Forse da questa idea nasce la consolazione
che non c’è spazio per ferire ancora
un territorio martoriato, e che, d’ora in poi,
magari per errore, i suoi abitanti
saranno costretti a imboccare vie più virtuose
Ecco il villaggio Coppola,
dove il sogno del turismo
ha generato una foresta di rovine.
In tutta questa zona puoi vedere
l’impero romano alla rovescia:
tutto quello che fu gloria
e conquista, adesso è fallimento
grattugiato sulle spalle di chi resta.
Mi fermo per il solito panino,
lo mangio mentre arrivo a Mondragone.
Ora il disordine è meno perentorio,
posso avanzare verso il Garigliano.
Cerco la centrale nucleare,
l’epicentro del guasto e degli errori.
Il pericolo se c’è non si vede,
non si capisce se credere a chi allarma
o a chi rassicura, nel dubbio stacco
dal ramo un’albicocca,
il mio spavento è per il prossimo minuto
per il gomitolo di vene nella testa
per il cuore che non sa darsi pace.
Comunque nella zona non si vede
il disordine e lo scompiglio
di cui mi avevano parlato
e quando cautamente
arrivo al mare
la spiaggia mi pare vuota e felice,
vedo una famiglia che gioca
a bocce, due ragazze che con aria stupida
mi dicono di non fotografare:
certe persone sono le spie
le spine di un paesaggio rotto.
Il Garigliano è la boa del mio viaggio,
posso tornare indietro
a ripassare gli epigrammi
del caos, le lettere
delle discariche e delle puttane,
gli aforismi nei lampi dei semafori
e il racconto insulso dei palazzi.
Oggi neppure so tornare a casa,
al mio paese non c’è più mia madre
che accendeva per me candele d’ansia.
Sulle alture irpine non sento
niente, anche qui solo un mucchio
di tegole.
Guardo la ruggine sul palo di un lampione,
gli occhi di un cane zoppo,
la busta con il pane
che una vecchia porta a spasso per il paese:
cose inutili, intimamente clamorose.
Quello che c’era sotto
adesso è morto,
però rimane sempre qualche crepa.
giovedì 26 settembre 2013
domenica 22 settembre 2013
sabato 21 settembre 2013
venerdì 20 settembre 2013
Gabbie
Tanto
tempo fa, l'uomo ascoltava con stupore un suono di colpi regolari che veniva
dal suo petto e non si immaginava certo che cosa fosse. Non riusciva a
identificarsi con una cosa tanto estranea e sconosciuta come un corpo. Il corpo
era una gabbia e al suo interno c'era qualcosa che guardava, ascoltava, aveva
paura, rifletteva e si stupiva; questo qualcosa, questo resto lasciato dalla
sottrazione del corpo, era l'anima.
Oggi,
ovviamente, il corpo non è più uno sconosciuto: sappiamo che ciò che batte nel
petto è il cuore, e che il naso è l'estremità di un tubo che sporge dal corpo
per portare ossigeno ai polmoni. Il viso non è che un quadro di comando dove
vanno a sfociare tutti i meccanismi del corpo: la digestione, la vista,
l'udito, la respirazione, il pensiero.
Da
quando l'uomo sa nominare ogni sua parte, il corpo lo preoccupa meno. Ormai
sappiamo anche che l'anima non è che un'attività della materia grigia del
cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia
scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori
moda.
Ma
basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino,
perché l'unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell'età della
scienza, svanisca di colpo.
Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere
Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere
domenica 15 settembre 2013
Definizioni
GATTO: Creatura anfibia che vive tra il mio pavimento e l’universo.
Il g. base, distinguibile in g. Domestico e g. Selvatico, si compone tipicamente di: testa, occhi, pelo, orecchie, lingua triangolare, muso, peli, coda o codina, zampe o zampette, cuscinetti sotto le zampette, buchetto di culo, dentini, pancino peloso morbido (o mordibissimo). Questi elementi nel g. base sono tutti di serie. Opzionali le recchie mozze, l’occhio guercio, la zampa smerza, l’alopecia, la micosi, i vermi (g. di strada usato o molto usato); la coda piumata, i calzini bianchi, il pelo lucido, il collare col campanellino (g. business).
Il g. base necessita di manutenzione minima. Il g. base racchiude all’altezza della gola una scatola delle fusa che si attiva automaticamente quando il suo manutentore sta cucinando. Il segnale delle fusa indica richiesta di cibo da immettere nel g., ed è associato sempre a una piccola coreografia di tenerezze interessate al manutentore. Il g. si distingue dagli altri modelli di animali per la sua capacità di riconoscere l’attività intestinale del manutentore in modo da andarglisi ad accoccolare in grembo durante la digestione, non prima e non dopo, esattamente durante.
Nei paraggi di attività psichedelica, il g. percepisce immediatamente l’effetto della sostanza in circolo nel manutentore e, riconoscendo il suo mondo di provenienza, dischiude la sua vera natura, che è cosmica, e si esprime come vettore di energie transplanetarie in forma di morbido felino. In quelle circostanze sarà dunque possibile riconoscere agevolmente nelle vibrisse del g. antichi bastioni di fortezze azteche, nelle piccole orecchie del g. caverne mesozoiche straordinarie, nel pelame del muso giungle pluviali, nelle pupille galassie in configurazione tra le tempeste elettriche.
Per approfondimenti si rimanda a Burroughs - Il gatto in noi, ed. italiana Adelphi 1994, trad. di G. Bernardi, essenziale quanto esaustivo manuale d’istruzioni per l’utilizzo del g. come veicolo spaziale.
(Peppe Fiore)
sabato 14 settembre 2013
giovedì 12 settembre 2013
sabato 7 settembre 2013
giovedì 5 settembre 2013
Regalami libri
Per
Izet Sarajlic
Regalami libri
che finiscano bene
in mancanza di romanzi
anche poesie
in mancanza di poesie
magari anche una strofa
in mancanza di una strofa
anche un unico verso.
Regalami un amore
che finisca bene
il vostro è fuggito
lasciando aperta la porta
ai suoi fantasmi
Tristano e Isotta
Romeo e Giulietta
Henry e Yvonne
papà e mamma
per sempre uniti
per sempre separati.
Da quarant'anni
provo a scrivere una vita
che finisca bene
da quarant'anni
sono morto quaranta volte
e nato quarantuno
da quarant'anni
porto le cicatrici di separazioni
mi sveglio la notte
in mezzo a una ferita
che lascia ciascuno
dall'altro lato del sangue.
Regalami libri
che finiscano bene
L'isola del tesoro
ma non Il dottor Jekyll e mister Hyde
L'ammutinamento
dell'Elsinore
ma non Vent'anni dopo
ma non Madame Bovary
non Il rosso e il nero
non, come dice il suo titolo,
Le Illusioni perdute
Le avventure del
capitano Hornblower
ma non Moby Dick
Via dalla pazza folla
ma non Giuda l'oscuro
né parecchi capolavori del ventesimo
secolo
i Vangeli
ma non l'eroe dei Vangeli
né parecchie vite del ventesimo secolo.
Lascia la pagina al suo candore
attraversala
senza scriverla
non impegnarti in un verso
di cui ti pentiresti
che a piede fermo
ucciderebbe gli altri.
Lascia questa donna al suo sguardo
Non aprire
una storia che finirà male
un giorno
lei morirà
ti abbandonerà
ti lascerà solo
davanti all'immensa nostalgia
dell'attimo
prima dell'incontro
quando era possibile
vivere una storia
che sarebbe finita bene
che non sarebbe finita affatto
come questo verso di Gérald Neveu
la bagnante scivola via
parallela al desiderio
come quest'altro di Mallarmé
il trasparente
ghiacciaio dei voli non fuggiti
Non so nuotare
ma la seguo
non comprendo il verso di Mallarmé
ma lo sento
come ho sentito
corre voce che si possa essere felici
e l'ho seguita.
Regalami una poesia
che non comincia
e non finisce
Regalami una poesia.
(Yvon Le Men)
mercoledì 4 settembre 2013
L'abitudine
Anni
fa mi sono detta: «Non esiste la vecchiaia; c’è soltanto la tristezza». Col
passare del tempo ho imparato che, sebbene questo sia vero, non lo è del tutto.
Anche l’abitudine contribuisce a far diventare vecchi; il processo mortale di
fare la stessa cosa allo stesso modo alla stessa ora giorno dopo giorno, prima
per trascuratezza, poi per inclinazione, e infine per codardia o inerzia.
Fortunatamente, la vita incongruente non è l’unica alternativa; infatti il
capriccio è dannoso come la routine. L’abitudine è necessaria; è l’abitudine di
avere delle abitudini, di fare di una traccia un solco, che è necessario
combattere, se si vuole rimanere vivi.
Edith Wharton, Uno
sguardo indietro
lunedì 2 settembre 2013
domenica 1 settembre 2013
Effimero
If I live too long
I will sing too many songs
If I die today
You will love me anyway
I could be brave, suddenly
Coming of age, suddenly
There are some words better said
silently
Wake into sleep, suddenly
Shallow to deep, suddenly
You may love me
We will die anyway
I will sing too many songs
If I die today
You will love me anyway
I could be brave, suddenly
Coming of age, suddenly
There are some words better said
silently
Wake into sleep, suddenly
Shallow to deep, suddenly
You may love me
We will die anyway
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