Tanto
tempo fa, l'uomo ascoltava con stupore un suono di colpi regolari che veniva
dal suo petto e non si immaginava certo che cosa fosse. Non riusciva a
identificarsi con una cosa tanto estranea e sconosciuta come un corpo. Il corpo
era una gabbia e al suo interno c'era qualcosa che guardava, ascoltava, aveva
paura, rifletteva e si stupiva; questo qualcosa, questo resto lasciato dalla
sottrazione del corpo, era l'anima.
Oggi,
ovviamente, il corpo non è più uno sconosciuto: sappiamo che ciò che batte nel
petto è il cuore, e che il naso è l'estremità di un tubo che sporge dal corpo
per portare ossigeno ai polmoni. Il viso non è che un quadro di comando dove
vanno a sfociare tutti i meccanismi del corpo: la digestione, la vista,
l'udito, la respirazione, il pensiero.
Da
quando l'uomo sa nominare ogni sua parte, il corpo lo preoccupa meno. Ormai
sappiamo anche che l'anima non è che un'attività della materia grigia del
cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia
scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori
moda.
Ma
basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino,
perché l'unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell'età della
scienza, svanisca di colpo.
Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere
Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere
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