domenica 29 settembre 2013

Campania Felix




Andiamo in giro ovunque
ma non è chiaro
se esiste ancora il mondo.
Nei luoghi più ricchi, più civili
un senso di stanchezza
e di muffa ben confezionata.
Allora bisogna scendere
nel Basso Occidente,
nei luoghi dove la terra
perde sangue,
e basta innaffiare un orto
perché diventi casa e pioggia nera.
È il delirio di costruire una città
sopra uno straccio e poi girarci dentro
mischiando frutteti e capannoni,
casolari e officine,
le coste dei negozi, i fiordi delle ville,
i porti delle pompe di benzina.
Da Salerno a Napoli
l’autostrada attraversa una città
che si ferma solo davanti alle montagne.
Angri, Scafati, Nocera e Pagani
arresi bruciano nel giorno estivo,
ognuno è vicino alla sua polvere,
ovunque puoi vedere
che si è persa la faticosa dolcezza
della campagna.
L’agro nocerino-sarnese
è un immenso campo di crisantemi
in cemento armato. Nocera superiore:
case e centri commerciali,
cantieri, ponti, viadotti, officine,
tutto sparpagliato e incollato dalle mani di un cieco.
Angri e oltre:
lettiera per cavalli,
anziano seduto accanto alle sue stampelle
che si gode il traffico e i suoi dolori,
casa ecocompatibile,
l’outlet dell’elettrodomestico,
lavatrici sui marciapiedi,
il parcheggio Tre monelli,
si prenotano carciofi arrostiti,
Outlet pastore,
Caffetteria Gesù bambino:
sala interna-rosticceria-pasticceria.
Pagani: la statale, l’autostrada e la ferrovia
attraversano il paese,
si vive in una sorta di tapis roulant,
un movimento frenetico che non fa nascere
l’idea di fuggire.
Appena si forma un buco
subito arriva un’auto a colmarlo.
Torre del Greco, Portici, Ercolano,
incauti nei metalli delle auto
i topi affaccendati nell’andare,
nel tentativo folle di gremire
le zolle ancora calde della lava.
Mariconda (frazione di Pompei):
La pizza del poeta,
Panuozzo più due bottiglie d’acqua: 4 euro,
Macelleria Al vero vitello.
Gragnano:
Studio fotografico Fotoromanzo,
Università della pasta,
Pizzeria Strapizzami,
Parrucchiere Idee per la testa,
Show Room Infissi.
Napoli è foderata nel rumore,
dentro c’è ancora qualcosa,
da fuori è un purgatorio di palazzi,
una teca di lampi orizzontali.
Se prosegui sul rigo della costa
non c’è speranza di trovare
il vuoto, la gialla solitudine
lucana. Sto passando dentro
il vicolo cieco del fervore:
Arzano, Acerra, Afragola.
La Campania delle pianure
accoglie una fittissima maglia di rumori,
una perenne apocalisse sonora
da cui sono esenti solo i morti dentro i cimiteri.
Prima ogni posto aveva un suo respiro
e per vederlo salivi le scale,
ogni luogo era una stanza intima,
lingua cupa, mandibola
feroce. Ora in giro c’è un’aria
di sconfitta, un rosario di facce
innervosite da una smania senza fondo.
A Marigliano
le strade sono molto dissestate:
miserie pubbliche e ricchezze private.
È un susseguirsi di cancelli,
cancelli dei parchi, cancelli delle case.
Nessuno si fida più di nessuno.
Afragola, perfettamente congiunta
con Casoria e Cardito, è in mezzo a una selva
di paesi giganti
che insieme fanno ottocentomila abitanti.
I paesi hanno due malattie.
Quelli più piccoli una malattia anginosa,
con le vene che si restringono e poi si chiudono.
Quelli più grandi una malattia da dilatazione,
come se fossero dissanguati da un aneurisma squarciato.
Il cuore nero dell’Occidente è qui sull’Asse Mediano
dove i cumuli di spazzatura impediscono
le fermate nelle aree di emergenza.
Ho una lieve e inspiegabile euforia,
come se il disordine e l’incuria
tonificassero la mia anima.
Non so se sono a Casalnuovo,
comunque noto un’enorme quantità
di istituti scolastici paritari
e molti centri estetici di lusso.
A Casoria
la piazza è una distesa di Suv
con i vetri oscurati,
parcheggiati in doppia e in tripla fila.
Caivano ti accoglie
con una serie di palazzine popolari
dipinte in verde pisello.
Guardo cose che si possono vedere
ovunque: un cane che dorme
e un bambino col telefonino.
Gli esercizi commerciali più importanti
sono in periferia,
in modo da servire più paesi.
Casavatore
è un luogo sfilacciato, desolante,
una teoria di case dimesse o mal costruite.
Poi palazzi a più piani e i soliti negozi,
parrucchieri, alimentari, abiti e motori.
Le insegne dicono che è già Caserta,
in queste chiese aperte
sul catrame, il traffico
è un dialetto universale
che affida il suo implacabile
ronzio
alle pietre tostate dell’asfalto.
Se noi aprissimo i tendini ad ognuno,
se andassimo a spiare
dietro lo sterno, avremmo un senso
di giornate guaste,
di anime parlanti senza tregua
le anime degli altri e di noi stessi,
noi che non sappiamo annodarci
a niente e ci spartiamo
questa evanescenza
perché il volere appartiene
ai più furbi,
gli innocenti indugiano, si astengono.
Caserta
sensazione di una città senza radici,
un allegato alla reggia,
invaso da negozi e macchinoni.
All’uscita di Caserta sud
file interminabili di camion.
Un tir davanti a me inizia a suonare
all’impazzata, un altro trasporta i Tic Tac,
un intero camion pieno di caramelle
alla menta: impressionante.
Sembra di stare su una pista da gioco per bambini,
con le sue curve a otto.
Cartello con la scritta Interporto sud Europa,
piattaforma del continente Europa.
Ho un senso di fastidio.
L’Europa che vedo è una giostra di camion.
Su questa giostra ci sto anche io.
Sono in macchina, avanzo su una strada
leggermente rialzata che taglia l’esteso
ematoma urbanistico di Aversa.
Vedo un’infinità di tegole e pochissimi alberi.
Appena c’è un po’ di verde è sempre circondato
da grandi muri di cemento,
già pronto per essere lottizzato,
già predestinato alla scomparsa.
In questi territori è avvenuta una battaglia
tra il pieno e il vuoto e ha vinto il pieno,
un pieno fatto di automobili e di tutto quello
che ruota intorno alle automobili.
A Santa Maria un piccione bianco,
due cani che dormono,
una pietra a forma di fallo.
Una strana scritta su un muro:
comunisti = camorra,
la pubblicità di un centro commerciale
che promette il risveglio dei sensi,
uno spazio di scivoli e altalene
presentato come parco per i diritti dei bambini.
Vago sulla Nola-Villa Literno,
è un lungo giorno senza miraggi,
guardo le cose e non le porto dentro,
le lascio sparpagliate
dove sono: tre vecchi incollati davanti
a un bar, una signora con la cipria
negli occhi. Intanto ho già contato
cinque gatti straziati
sulla strada,
c’è sempre un frettoloso che li uccide.
Gli abitanti riescono a sopportare
il peso di questi luoghi
con un naturale disincanto
che li fa partecipare a questo perenne
carnevale del caos
senza prendersi troppo sul serio.
È come se avessero capito l’imbroglio
che sta sotto la cosiddetta vita sociale moderna.
È il fondo filosofico
di questa gente, una sorta di renitenza
alla leva del progresso:
se ne accettano gli arredi, le merci,
si resta con un cuore adolescente,
pronto allo spreco più che all’efficienza.
Non ho schiodato i polsi
dal volante, non ho nessuno che mi fa
domande e mi faccio una strana
compagnia senza pensare
neppure alla morte.
Giugliano:
c’è più gente qui che in tutti i paesi
della provincia di Campobasso
e basterebbe questo per dire dello squilibrio folle
tra il Sud dei monti e quello delle pianure.
Tutto è dedicato
a nostra signora automobile:
rivendite lussuose e di seconda mano,
carrozzerie, officine, scuole guida,
assicurazioni, gommisti, pompe di benzina.
Un negozio vende solo parabrezza,
un altro solo copri cerchioni.
L’altro fuoco dei commerci è la famiglia:
i negozi di bomboniere e di mobili,
le vetrine con gli abiti da sposa,
i ristoranti per le nozze, per le cresime e i battesimi.
Gricignano, Sant’Antimo, Succivo
li ho visti altre volte insieme
a Grazzanise. Ora arrivo estenuato
non so come a un piccolo paese
che ha due nomi, Cancello e Arnone,
cerco il mare e ancora non lo trovo.
Ogni paese in verità è un mistero,
un soffio della vita diverso in ogni luogo.
Ogni paese sarebbe da vedere come una nicchia,
un affresco, un santuario della geografia.
Ecco Castelvolturno,
qui l’Occidente si è carbonizzato,
aria africana, insegne
smisurate, la parola caseificio
come un mantra.
Provo un sentimento di clemenza
per le cose che ho visto,
per i luoghi che ho visitato.
Tutto mi appare perso e irrecuperabile.
Forse da questa idea nasce la consolazione
che non c’è spazio per ferire ancora
un territorio martoriato, e che, d’ora in poi,
magari per errore, i suoi abitanti
saranno costretti a imboccare vie più virtuose
Ecco il villaggio Coppola,
dove il sogno del turismo
ha generato una foresta di rovine.
In tutta questa zona puoi vedere
l’impero romano alla rovescia:
tutto quello che fu gloria
e conquista, adesso è fallimento
grattugiato sulle spalle di chi resta.
Mi fermo per il solito panino,
lo mangio mentre arrivo a Mondragone.
Ora il disordine è meno perentorio,
posso avanzare verso il Garigliano.
Cerco la centrale nucleare,
l’epicentro del guasto e degli errori.
Il pericolo se c’è non si vede,
non si capisce se credere a chi allarma
o a chi rassicura, nel dubbio stacco
dal ramo un’albicocca,
il mio spavento è per il prossimo minuto
per il gomitolo di vene nella testa
per il cuore che non sa darsi pace.
Comunque nella zona non si vede
il disordine e lo scompiglio
di cui mi avevano parlato
e quando cautamente
arrivo al mare
la spiaggia mi pare vuota e felice,
vedo una famiglia che gioca
a bocce, due ragazze che con aria stupida
mi dicono di non fotografare:
certe persone sono le spie
le spine di un paesaggio rotto.
Il Garigliano è la boa del mio viaggio,
posso tornare indietro
a ripassare gli epigrammi
del caos, le lettere
delle discariche e delle puttane,
gli aforismi nei lampi dei semafori
e il racconto insulso dei palazzi.
Oggi neppure so tornare a casa,
al mio paese non c’è più mia madre
che accendeva per me candele d’ansia.
Sulle alture irpine non sento
niente, anche qui solo un mucchio
di tegole.
Guardo la ruggine sul palo di un lampione,
gli occhi di un cane zoppo,
la busta con il pane
che una vecchia porta a spasso per il paese:
cose inutili, intimamente clamorose.
Quello che c’era sotto
adesso è morto,
però rimane sempre qualche crepa.

Franco Arminio, L’impero romano alla rovescia
 


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