Emerenc
era generosa, caritatevole, buona, onorava Dio con le sue azioni pur negandone
l'esistenza, Emerenc era disposta al sacrificio, a lei riusciva spontaneo tutto
ciò che io dovevo impormi con un certo sforzo, e non importava che agisse
inconsapevolmente, la bontà di Emerenc era naturale, io, invece, mi ero educata
a esserlo, mi ero obbligata col passare del tempo a rispettare alcune norme
etiche. Emerenc un giorno sarebbe stata capace di farmi capire, senza dire
nemmeno una parola, che quello che io ritenevo fosse fede era invece una specie
di buddismo, un semplice rispetto delle tradizioni, la mia morale non era altro
che disciplina, il risultato dell'allenamento al quale mi avevano sottoposto il
collegio, la scuola, la famiglia.
Emerenc non aveva studiato Eraclito, ma conosceva la sua filosofia meglio di me, che ritornavo, appena possibile, nella città dov'ero nata alla ricerca di cose irreparabilmente scomparse – l'ombra degli edifici che un tempo si stendeva sul mio viso, la mia vecchia casa perduta –, e naturalmente non trovavo nulla perché chissà dove scorreva in quel momento l'acqua del fiume che trascinava i cocci della mia vita. Emerenc era troppo saggia per tentare imprese impossibili, dedicava le energie a ciò che ancora era possibile realizzare nel futuro per il proprio passato.
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