Abbiamo
aumentato il nostro numero fino a sette miliardi e più, arriveremo a
nove miliardi prima che si intraveda un appiattimento della curva di
crescita. Viviamo in città superaffollate. Abbiamo violato, e
continuiamo a farlo, le ultime grandi foreste e altri ecosistemi
intatti del pianeta, distruggendo l’ambiente e le comunità che vi
abitavano. A colpi di sega e ascia, ci siamo fatti strada in Congo,
in Amazzonia, nel Borneo, in Madagascar, in Nuova Guinea e
nell’Australia nordorientale. Facciamo terra bruciata, in modo
letterale e metaforico. Uccidiamo e mangiamo gli animali di questi
ambienti. Ci installiamo al posto loro, fondiamo villaggi, campi di
lavoro, città, industrie estrattive, metropoli. Esportiamo i nostri
animali domestici, che rimpiazzano gli erbivori nativi. Facciamo
moltiplicare il bestiame allo stesso ritmo con cui ci siamo
moltiplicati noi, allevandolo in modo intensivo in luoghi dove
confiniamo migliaia di bovini, suini, polli, anatre, pecore e capre -
e anche centinaia di ratti del bambù e zibetti.
In
tali condizioni è facile che gli animali domestici e semidomestici
siano esposti a patogeni provenienti dall’esterno (come accade
quando i pipistrelli si posano sopra le porcilaie) e si contagino tra
di loro. In tali condizioni i patogeni hanno molte opportunità di
evolvere e assumere nuove forme capaci di infettare gli esseri umani
tanto quanto le mucche o le anatre. Molti di questi animali li
bombardiamo con dosi profilattiche di antibiotici e di altri farmaci,
non per curarli ma per farli aumentare di peso e tenerli in salute il
minimo indispensabile per arrivare vivi al momento del macello, tanto
da generare profitti. In questo modo favoriamo l’evoluzione di
ceppi batterici resistenti. Importiamo ed esportiamo animali
domestici vivi, per lunghe distanze e a grande velocità. Lo stesso
avviene per certi animali selvatici usati in laboratorio, come i
primati, o tenuti come esotici compagni. Commerciamo in pelli,
contrabbandiamo carne e piante, che in certi casi portano dentro
invisibili passeggeri patogeni.
Viaggiamo
in continuazione, spostandoci da un continente all’altro ancora più
in fretta di quanto faccia il bestiame. Dormiamo in alberghi dove
magari qualcuno prima di noi ha starnutito e vomitato. Mangiamo in
ristoranti dove magari il cuoco ha macellato un porcospino prima di
pulire i nostri frutti di mare. Visitiamo templi pieni di scimmie in
Asia, mercati in India, paesini pittoreschi in Sudamerica, siti
archeologici polverosi in Nuovo Messico, fattorie nei Paesi Bassi,
grotte piene di pipistrelli in Africa orientale, ippodromi in
Australia - e ovunque respiriamo la stessa aria, diamo da mangiare
agli animali, tocchiamo tutto, diamo la mano ai simpatici abitanti
del luogo. Poi risaliamo su un bell’aeroplano e torniamo a casa.
Siamo
punti da zanzare e zecche. Cambiamo il clima del globo con le nostre
emissioni di anidride carbonica e spostiamo le latitudini a cui le
suddette zanzare e zecche vivono. Siamo tentazioni irresistibili per
i microbi più intraprendenti, perché i nostri corpi sono tanti e
sono ovunque.
Tutto
ciò che ho appena scritto si può rubricare sotto la voce «ecologia e biologia evolutiva delle zoonosi». Le circostanze
ambientali forniscono opportunità per gli spillover. L’evoluzione
le coglie, esplora le potenzialità e dà gli strumenti per tramutare
gli spillover in pandemie.
David
Quammen, Spillover. L'evoluzione delle pandemie (2014)
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