martedì 13 marzo 2012

Certi verdini


Il primo puzzle rappresentava un paesaggio andino di anonimo spagnolo del diciannovesimo secolo, settecentocinquanta pezzi. Mia madre era l'architetto e il capocantiere, io uno scalpellino. Le mie mansioni erano solo servili: raggruppare in un angolo tutti i pezzi celesti, cercare nella scatola un certo pezzo tribolato, orientare diversamente il coperchio che riproduceva l'immagine. Con didascalico zelo mia madre commentava il proprio operato per rivelarmi il metodo che lo sottendeva: non rimestare caoticamente nella scatola ma scrupolosamente scostare, rivoltare, isolare; suddividere certe classi di pezzi per colorazione o per grana, allogandole in tazze, pentolini, piattini; deporre dolcemente il pezzo nella sua sede senza volervelo incastrare; comporre prima la cornice poi le figure più facili incominciando dai loro contorni infine i cieli ed i prati partendo dalla linea del loro confine; sapere quando smettere di ostinarsi su una determinata zona per aprire un fronte novello; ricordarsi che di norma un pezzo quadrilobato cade in un quadrato centrale di sedici pezzi per lato, alternare lo sguardo negativo allo sguardo positivo, dialetticamente contemperando la ricerca del pieno di cògnito vuoto e del vuoto di cògnito pieno; non fidarsi alla prima compatibilità delle forme, dei colori e delle linee ma scetticamente supporre in via prudenziale una diabolica coincidenza, e in mancanza dell'ultima certezza astenersi.
La scuola del rigore, il rigore di quella scuola...
(…)
Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non per "passare del tempo" - che rimarrebbe comunque una forma di interesse e di giustificazione ab externo - ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere. E dunque codesta verità imparai da mia madre: che il momento più idoneo ad incominciare un nuovo puzzle è quando siamo oberati di impegni, nell'urgenza affannosa delle cose serie, delle cose sode: quale trionfo sul mondo, allora, dedicarsi a quella scientifica dilapidazione del tempo! Ma appunto perchè l'inutilità sia perfetta occorre che l'opera si dissolva nel momento stesso in cui si completa e completandosi si reifica: certo chi ne differisce la distruzione lo fa per contemplare ancora un pò il risultato: ma per quanto la contemplazione possa illudere del contrario, essa non è mai disinteressata. Noi infatti sappiamo che la vista del ricomposto dipinto, lungi dal rimanere un'esperienza neutra, inocula nell'esecutore l'impura idea di aver agito a quel fine - la contemplazione, appunto - e non per la devozione al bello-inutile, a quel certo tipo di bello-inutile-metodico di cui si sta qui discorrendo. Eppure - anche di ciò mia madre mi avvertì per ambagi - esistono persone che completato un puzzle lo lasciano giorni e giorni sul tavolo, alla mercè visiva loro e di chiunque altro. E persone ancora più depravate che non lo disfano mai, e che per questo incollano tutti i pezzi su un cartone o una tavola di legno sottile. E persone, infine, che arrivano al punto di appendere a una parete quella cosa tremenda, quell'aberrazione che è un puzzle incollato.
(…)
Di tanta memoria, di tutta la mia memoria, scelgo di portarmi nel nulla quel cortese fruscìo, le screpolature nell'oro delle tavole medioevali, la misteriosa dolcezza di certi verdini.

(Michele Mari, da Tu sanguinosa infanzia)

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