(...) Io so questo: che i
napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella
savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa
tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili
mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che
chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto
i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un
rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi
di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare.
Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente;
ma anche una profonda consolazione, perchè questo rifiuto, questa negazione
alla storia, è giusto, è sacrosanto. La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi
vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a
fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue
escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a
comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per
trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) e
per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù
sta diventando altra. Finché
i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani
trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino
all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili.
Pier
Paolo Pasolini
(Il testo fu pubblicato
dal giornalista napoletano Antonio Ghirelli in La napoletanità, edito
da Società editrice napoletana, nel 1976)
Il napoletano (…) vive
nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario
tale da mutare di punto in bianco la sua situazione
Raffaele La
Capria, Ferito a morte
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