Controluce
a un tramonto
di pesca e zucchero.
E il sole all'interno
del vespro,
come il nocciolo in un frutto.
La pannocchia
serba intatto
il suo riso giallo e duro.
Agosto.
I
bambini mangiano
pane scuro e saporita luna.
F. Garcia Lorca
Fammi
essere forte,
forte di sonno e di intelligenza
e forte di
ossa e fibra;
fammi imparare,
attraverso questa
disperazione,
a distribuirmi:
a sapere dove e a chi dare
a
riempire i brevi momenti
e le chiacchiere casuali
di
quell’infuso speciale
di devozione e amore
che sono le
nostre epifanie.
A non essere amara.
Risparmiamelo il
finale,
quel finale acido citrico aspro
che scorre nelle
vene
delle donne in gamba
e sole.
Sylvia Plath
Enzo
Maiorca immerso nel caldo mare di Siracusa parlava a poca distanza
con la figlia Rossana che era sulla barca pronta anch’essa ad
immergersi, all’improvviso si sentì colpire leggermente alle
spalle, si girò e vide un delfino. Capì subito che l’animale non
voleva giocare, ma esprimere qualcos’altro. Il delfino infatti si
allontanò e Maiorca lo seguì a nuoto. Poi l’animale si immerse e
lo stesso fece Enzo; a circa 12 metri di profondità, impigliato in
una rete di una spadara abbandonata, c’era un altro delfino.
Maiorca emerse rapidamente e chiamò a gran voce la figlia perché lo
raggiungesse con i due coltelli da sub che erano nella barca.
In
pochissimi minuti i due esperti sub riuscirono a liberare il delfino
impigliato nella rete, il quale allo stremo delle sue forze riuscì
ad emergere e, emettendo quasi “grido umano”, così lo descrisse
Maiorca, riuscì a respirare. Un delfino può resistere sott’acqua
non oltre 10 minuti, dopodiché affoga.
Il delfino liberato
restò un po’ stordito in acqua, controllato da Enzo, Rossana e
l’altro delfino. Poi si riprese e, sorpresa! Si scoprì che era una
delfina perché da lì a poco partorì un piccolo.
Mamma e
cucciolo si allontanarono mentre, il delfino maschio fece un giro
intoro ai due umani e si fermò un attimo davanti ad Enzo Maiorca,
gli diede un colpetto sulla guancia a segno di gratitudine e poi si
allontanò.
Questa meravigliosa storia commosse tutti i presenti che si alzarono in piedi per un lungo e caloroso applauso. Enzo Maiorca terminò il suo intervento dicendo: “fin quando l’uomo non avrà imparato a rispettare e a dialogare con il mondo animale, non potrà mai conoscere il suo vero ruolo su questa Terra”.
Lo
so. Lo so.
Sono limitati, hanno diverse
esigenze
e
preoccupazioni
ma io li guardo e apprendo.
Mi piace
il poco che sanno
che in fin dei conti
è molto.
Si
lamentano ma
non si angustiano,
avanzano con sorprendente
dignità.
dormono con una tale semplicità
che agli umani
sfugge.
I loro occhi sono
più belli dei nostri
e
possono dormire per venti ore
al giorno
senza esitazione
o
rimorso.
Quando mi sento
abbattuto
devo solo
guardare
i miei gatti
e mi torna il coraggio.
Studio
queste
creature.
Sono i miei
maestri.
Charles Bukowski, My cats
Ai miei occhi, i cinefili erano uno spettacolo più interessante di qualunque film. L’esposizione prolungata a quelle vecchie pellicole era capace, c’è da credere, di modificare la consistenza del loro corpo infagottato in abiti dimessi, privi di qualunque indizio di vanità. Sembrava che avessero depositato all’entrata del cinema ogni ambizione mondana, ogni legittimo desiderio naturale, la memoria stessa della vita vorace e rumorosa che là fuori proseguiva il suo corso inarrestabile. Quando arrivava l’ora della chiusura, e anche l’ultimo titolo di coda svaniva nella luce crudele che si accendeva in sala, li immaginavo incapaci di ritornare veramente alle loro abitudini, alle loro famiglie, alle loro eventuali occupazioni, storditi e astratti come dervisci dopo ore passate a ruotare su un perno invisibile, un vuoto abissale. La loro memoria era prodigiosa, conoscevano tutte le gioie più sottili della classificazione e della discriminazione. La pluralità inesauribile dei film era la fonte di una felicità sempre in grado di rinnovarsi, perché se ognuno di questi aveva un inizio e una fine, un titolo che li delimitava e li distingueva dagli altri, un regista, dei protagonisti, una trama, il Cinema invece era un nastro di Moebius, un’immagine concreta dell’infinito che loro potevano percorrere senza mai tornare sui propri passi, senza mai guardare indietro. Era una felicità, e anche un dolore, perché non c’è desiderio che, per durare nel tempo, non sia fatto di frustrazione e di fallimento. Ognuna di quelle persone di sicuro nutriva la convinzione di non aver ancora visto un certo film, una certa sequenza, una certa inquadratura che avrebbero sciolto l’ultimo sigillo – di non aver ancora afferrato quella che Goethe chiamava “la chiave di tutto”.
Emanuele Trevi, Sogni e favole
Dal mio quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull’inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l’accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili.