Ai miei occhi, i cinefili erano uno spettacolo più interessante di qualunque film. L’esposizione prolungata a quelle vecchie pellicole era capace, c’è da credere, di modificare la consistenza del loro corpo infagottato in abiti dimessi, privi di qualunque indizio di vanità. Sembrava che avessero depositato all’entrata del cinema ogni ambizione mondana, ogni legittimo desiderio naturale, la memoria stessa della vita vorace e rumorosa che là fuori proseguiva il suo corso inarrestabile. Quando arrivava l’ora della chiusura, e anche l’ultimo titolo di coda svaniva nella luce crudele che si accendeva in sala, li immaginavo incapaci di ritornare veramente alle loro abitudini, alle loro famiglie, alle loro eventuali occupazioni, storditi e astratti come dervisci dopo ore passate a ruotare su un perno invisibile, un vuoto abissale. La loro memoria era prodigiosa, conoscevano tutte le gioie più sottili della classificazione e della discriminazione. La pluralità inesauribile dei film era la fonte di una felicità sempre in grado di rinnovarsi, perché se ognuno di questi aveva un inizio e una fine, un titolo che li delimitava e li distingueva dagli altri, un regista, dei protagonisti, una trama, il Cinema invece era un nastro di Moebius, un’immagine concreta dell’infinito che loro potevano percorrere senza mai tornare sui propri passi, senza mai guardare indietro. Era una felicità, e anche un dolore, perché non c’è desiderio che, per durare nel tempo, non sia fatto di frustrazione e di fallimento. Ognuna di quelle persone di sicuro nutriva la convinzione di non aver ancora visto un certo film, una certa sequenza, una certa inquadratura che avrebbero sciolto l’ultimo sigillo – di non aver ancora afferrato quella che Goethe chiamava “la chiave di tutto”.
Emanuele Trevi, Sogni e favole
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