L'animale torturato, straziato e svaginato del proprio essere naturale, in ogni momento di tutti i secoli del predominio umano. Il suo grande urlo dal neolitico attraversa tutto l’arco sgocciolante sangue e lacrime della nostra maledizione in terra…
Per
chi abbia un cuore che abbia orecchi non è un silenzio, è veramente
un urlo spaventoso, che si avvinghia ai lobi, che ci preme il petto
con ginocchio di ferro…
Ogni atto di tenerezza e di pietà,
anche minimissimo, è infinitamente prezioso nella straziante giostra
cosmica perché la storia non dà primati che alla martellante
brutalità della Tenebra, non ha da esibire che strepiti e cori di
vigliaccherie di forti calpestanti le debolezze…
Chi tirerà
fuori anche un solo topo da una gabbia sperimentale sarà scritto nei
libri delle Sibille angeliche.
Guido Ceronetti - La fragilità del pensare
"Si vive nel provvisorio" disse. "Si pensa che per ora la vita va male, per ora bisogna arrangiarsi, per ora bisogna anche umiliarsi, ma che tutto ciò è provvisorio. La vera vita comincerà un giorno. Ci prepariamo a morire col rimpianto di non aver vissuto. A volte quest’idea mi ossessiona: si vive una sola volta e quest’unica volta si vive nel provvisorio, nella vana attesa del giorno in cui dovrebbe cominciare la vera vita. Così passa l’esistenza"
Ignazio Silone, Vino e pane
Non
è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che
ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore
metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non
sono le meschine razioni
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche
il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non
è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno
martellato
Le orecchie per un’intera generazione
È il
poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida
Mentre
esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero
pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La
punizione, lo sa, è ingiusta
La decrepitezza
morale
L’inettitudine mentale
Che concede alla dittatura
una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da
obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la
paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra
urina
È questo
È questo
È questo
Amico mio, è
questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa
prigione.
Ken Saro Wiwa, La vera prigione
A quell’ora le gallerie di negozi non erano affollate. Adottai un ottimistico sorriso interiore e presi a passeggiare lentamente. Non tardai a rendermi conto che gli scarsi clienti del primo pomeriggio erano per lo più ragazzi, riuniti in piccole bande. Non che una simile scoperta richiedesse grande perspicacia: i ragazzi facevano di tutto per non passare inosservati. Gridavano parolacce, camminavano bevendo bibite in lattina e, quel che è peggio, si presentavano in modo spaventoso. I maschi, con la testa rapata (alcuni alla mohicana), calzavano enormi scarpe da ginnastica e avevano le orecchie e la faccia perforate da numerosi piercing; le ragazze, con i capelli tinti di colori impossibili, portavano magliette di cinque taglie troppo piccole e pantaloni cascanti sotto l’ombelico. Sono orribili, pensai, fanno di tutto per cancellare la naturale bellezza della gioventù. A pensarci bene, diceva la stessa cosa mia madre, negli anni della mia adolescenza, ogni volta che mi vedeva uscire con un vecchio cappotto «da poeta maledetto», così lei lo definiva. Eppure era un cappotto niente male, solo un pò logoro. Povera mamma, pensai, se vedesse questi «giovinastri» (espressione sua anche questa) abbandonarsi a comportamenti francamente inadatti alla loro età... Ma forse ero io ad avere idee inadatte alla mia età. Dovevo proprio giudicare il mondo come una zitella inacidita? Potevo ancora aspettare qualche anno prima di diventarlo veramente. E così feci un altro eroico sforzo per scacciare il malumore. Decisi di concedermi un caffè prima dello shopping. A pochi metri, un minuscolo bar aveva sparso i tavolini nella galleria come in una piazzetta all’aperto. Guardai con scetticismo le aiuole di plastica, la fontanella, perfino un paio di lampioni che non gettavano luce. Tutto fasullo. Ma il problema era mio, ero io che non mi adattavo ai tempi. Eppure, cosa potevo farci? Nessuno sarebbe riuscito a togliermi dalla testa che dipingere animaletti in un parcheggio è un’idiozia, che i ragazzi di oggi sono maleducati e malvestiti, e che decorare i negozi con fiori finti è una caduta di gusto imperdonabile. Per non parlare dei centri commerciali per loro stessa definizione. Non conosco luoghi più inospitali, volgari e nauseabondi sull’intero pianeta. Questa era la mia opinione, e sarei stata disposta a sostenerla anche di fronte a un tribunale popolare.
Alicia Gimènez-Bartlett, Nido vuoto
Ho
sentito dire che toglieranno dal mercato i termometri a mercurio e le
lampadine a incandescenza. Niente più palline a mercurio che corrono
sul pavimento finchè non si urtano e si fondono in una più grande,
niente più filamenti incandescenti da guardare con gli occhi
socchiusi per vedere i fili argentati che fremono. Il mondo è fatto
di dettagli. Noi siamo un agglomerato di dettagli. Siamo una
manciata di neve fresca che si scioglie al calore della mano. Palline
di mercurio, sensazioni imprecisate, trascuratezze, minuti evaporati.
Mezze frasi a cui non si è prestata attenzione, facce di cui non si
ricorda più l’espressione. Avvertimenti. Segnali. Intuizioni.
Paure, premonizioni, fesserie, sogni che s’infrangono e sogni che
si avverano, siamo gli oggetti che intasano le nostre case, le
memorie che si accavallano e perdono di senso, fuse come sono in un
significato nuovo. Siamo le disattenzioni. Le conseguenze. Le fortune
immeritate. Le sventure. Siamo addormentati sotto cieli noncuranti,
cieli che sono ovunque benché la neve li nasconda allo sguardo, come
a proteggerli dalle domande di fuoco che incendiano la testa. Avrei
soltanto voluto avere il tempo di spiegare a un bambino dalle ciglia
scure che i semi della melagrana sono traslucidi e che i bottoni di
madreperla un tempo sono stati conchiglie cullate dal mare.
E che non siamo capaci di volare. Non lo saremo mai.
Benedetta
Cibrario, Sotto cieli noncuranti
È sempre stata una cosa stranissima per me – ho pensato in quei giorni – come mai a un certo punto c’è una persona che in qualche modo ti altera il ritmo circolatorio, i suoi movimenti accelerano e rallentano le velocità del tuo sangue come il traffico e i terremoti, e poi questo pezzo di mondo si diffonde negli strati oscuri del tuo cervello e si mette a spostare i blocchi dei tuoi pensieri. Chissà che casino mi è successo dentro a la testa, coi neuroni che fanno le loro tracce, nuovi tracciamenti nuova vita – ho pensato – le cosiddette nuvole chimiche dei nostri umori, me lo prendi dentro e ti metti a pulsare, a mollare e stringere e mollare e stringere, e vien fuori del tracciamento neuronico nuovo, vita nuova. Nuove tracce nuove giornate. E alla fine diventiamo dei sacchi pieni di pezzi di mondo buttati dentro a caso, a seconda della fortuna. Se sei sfortunato e non fai gli incontri giusti diventi un sacco pieno di frattaglia morta, se sei fortunato diventi un sacco pieno di belle cose.
Ugo Cornia, Quasi amore
Una parabola.
In un sutra, Buddha raccontò una parabola: Un uomo che camminava per un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l'orlo. La tigre lofiutava dall'alto. Tremando, l'uomo guardò giù, dove, in fondo all'abisso, un'altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva. Due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L'uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l'altra spiccò la fragola. Com'era dolce!
101 Storie zen
Einstein diceva che è più facile spezzare un atomo che un luogo comune. Chi mai riuscirà a spezzare il luogo comune che nega agli animali non solo l’intelligenza, ma anche la capacità di soffrire o di amare? Nessuna persona seria dovrebbe dubitare di questo. Sono pienamente convinto, dico pienamente, che gli animali hanno una coscienza. L’essere umano non è il solo ad avere una vita interiore soggettiva. Forse l’essere umano ha paura di fare altri passi in questa logica: riconoscendo una vita interiore agli animali, sarebbe costretto a inorridire per il modo con cui li tratta.
Konrad
Lorenz
Il diritto di aborto trasformato in tortura. Vi racconto la mia cicatrice, in nome di tutte
(…) «Vi dico già che non voglio un nome di fantasia, anzi non voglio proprio un nome perché quello che è accaduto a me può accadere a tutte». Ci indica con il dito e poi si mette seduta, fa cenno di procedere con la registrazione. Che diventa in un attimo una chiacchierata tra amiche, tra donne che ne conoscono altre nella stessa situazione, che hanno già sentito questa storia. La stessa ripetuta tra generazioni diverse ma che ha sempre la medesima procedura. L’unica cosa che cambia è la sensazione che ti lascia. La cicatrice, la chiamano.
Lei comincia a parlare, parte la registrazione: «Quella mattina, il 5 settembre, accompagno mia figlia a scuola con mio marito. Ha cinque anni, è sveglissima, forse anche troppo. Fuori le madri mi vedono con la pancia. Ero quasi al sesto mese».
Non fa mai una pausa, mai una lacrima, mai qualcosa che ci spinga a farle prendere un secondo di attesa dal ricordo. «Dopo averla lasciata andiamo a fare la “morfologica”. Sono eccezionali queste nuove tecnologie, vedi tutto, riesci persino a capire a chi assomiglierà». L’ecografia morfologica serve per accertare l’esistenza di eventuali malformazioni, ma quasi sempre di fronte allo schermo che proietta l’immagine del feto ti concentri nei tratti somatici. È una caccia ai lineamenti. «A un certo punto il ginecologo smette di parlare, poi ci dice che qualcosa non va. Il feto è malformato, ha un ventricolo solo e l’aorta schiacciata. Il giorno dopo ci manda da un’altra specialista. Conferma la diagnosi, ci dice che potremmo farla nascere comunque con un’operazione fatta da un luminare. Avrei dovuto metterla al mondo e farla intubare; al sesto mese sottoporla a una nuova operazione per un’aspettativa di vita massimo di tre anni. Mi sono rifiutata. La specialista era una neocatecumenale».
Per arrivare a questo breve inizio è servita un’ora, intervallata da frasi, domande. Un buco di dubbi di fronte a un feto che cresce ma è “inadeguato alla vita”, questa la formula lessicale usata dai medici. «Quando ho deciso che non avrei messo al mondo una bambina così malata, pensavo che sarei riuscita a fare tutto presto, subito. Pensavo che trovare un ospedale in grado di farmi abortire non fosse un’odissea, pensavo di aver bisogno di un chirurgo, pensavo di non dover sentire dolore. Pensavo che una legge sarebbe bastata. Invece sono entrata in un inferno infinito, in cui le informazioni e l’aiuto ricevuto sono stati pari a zero, in cui ogni giorno venivo rimandata al successivo. Dal giovedì al venerdì, dal venerdì al sabato, poi c’è il week end, forse lunedì, forse no. E per tutti quei giorni sono rimasta in piedi, in piedi come un cavallo, per non sentirla muovere, sperando solo che finisse presto, imbottita di vino e di Xanax».
Questa donna, che non vuole un nome e vuole essere il nome di tutte, ha la stessa storia di molte altre: l’aborto, che sia terapeutico o no, ha dei tempi di attesa che assomigliano a una pena da scontare. Un silenzio di giorni durante i quali devi trovare un ginecologo che non sia obiettore di coscienza, che abbia un turno libero e che sia disponibile a prendere in carico il tuo caso. A Roma i medici disposti a praticare un aborto terapeutico sono cinque in tutta la città. Cinque medici per quasi tre milioni di abitanti. Poi c’è la visita psichiatrica. Secondo la legge 194 chi si sottopone ad aborto terapeutico può procedere solo nel caso in cui la propria salute fisica o psichica sia in pericolo. L’incompatibilità del feto con la vita non viene presa in considerazione. E quindi uno psichiatra deve accertare che la salute mentale della donna sia a rischio, nonostante la motivazione sia un’altra.
In ospedale entri in mezzo alla vita che scorre, mentre quella che porti in grembo sai che non nascerà. Felicità che si mischia al dramma. Al tavolo la registrazione non viene mai bloccata. Le parole continuano, poche domande che si intrecciano al racconto: «Ho atteso un’ora e quaranta prima che qualcuno si accorgesse di me, ho dovuto urlare per farmi notare. Poi c’è stato l’incontro con lo psichiatra. Un incontro freddo, una pratica da sbrigare senza empatia». È l’inizio della tortura di un diritto riconosciuto per legge. Partoriscono, in alcuni casi, senza che nessuno spieghi loro come avverrà. Non esiste uno sportello informativo. Sentono frasi crudeli e inutili, come «Io ne conosco di persone nate con un ventricolo solo, e stanno benissimo».
Vedono il figlio desiderato uscire dal loro corpo. Sole, spesso dentro un bagno, abbandonate. Ritrovate sopra una tazza del cesso mentre spingono il feto, perché un’ostetrica ha deciso che in sala parto non ci devono stare.
C’è chi si rifiuta di praticare loro la terapia del dolore perché gli anestesisti obiettori di coscienza, per esempio nel Lazio, sono quasi la totalità. C’è chi invece inietta morfina quando ormai è troppo tardi. Sono costrette a risentire il battito prima del parto. A rimanere ricoverate per giorni perché l’unico medico non obiettore ha ormai terminato il turno e bisogna attendere che torni. E allora le culle intorno a loro si riempiono e sentono la gioia della nascita della compagna di stanza. Il travaglio dell’altra. Con le ostetriche, anch’esse obiettrici, che ti guardano con disprezzo.
«Ricordo che c’era solo gente che partoriva, palloncini, fiocchetti e gridolini», lo dice con rabbia, ma con un sorriso, tra le labbra strette: «Mi hanno fatta stare in quell’ospedale a forza, per quattro lunghissimi giorni, nel silenzio. Non sapevo quando sarebbe successo, non sapevo che sarei rimasta ricoverata tutto quel tempo. Non sapevo che nessuno mi avrebbe praticato l’epidurale. Non sapevo i medicinali che mi avrebbero somministrato». Chiede se è giusto, chiede se è normale. Chiede. E noi ascoltiamo con un registratore acceso, consapevoli che quelle domande sono state già fatte tante volte, troppe volte, da altre donne. Da altre coppie.
«Quando è arrivato il giorno, mi hanno dato alcune pasticche, senza spiegarmi niente. Neppure dopo ho potuto capire cosa fossero, visto che la cartella clinica che mi è stata consegnata subito dopo le dimissioni, conteneva solo la data di accettazione e quella di uscita».
Il Covid-19 continua in un fruscìo lontano, lo commentiamo mentre l’inviato di una tv all-news tenta una diretta. Nessuna di noi sa che il Sistema sanitario nazionale verrà completamente messo in discussione da lì a pochi mesi, mentre noi lo stiamo già facendo. «È stato un attimo: appena prese quelle pillole è iniziato un dolore che non si può descrivere. Il parto è cominciato, un vero parto, non un’operazione. E nessuno mi aveva preparata a questo. Urlavo come una pazza e alla fine mio marito ha creduto che sarei morta. È uscito per chiedere aiuto e chi è entrato nella mia stanza mi ha sbeffeggiata: “Ma che è tutta questa scena, sei al secondo figlio, che non sai come si fa?”». Passano le ore, senza aiuti, senza epidurale. Il feto è scivolato via, non si ricorda se lo abbia visto. Semplicemente non ricorda o non vuole farlo.
Di questa registrazione, datata 22 febbraio, abbiamo tolto tanto, il sangue, la vista, la crudeltà eccessiva. Lo abbiamo fatto per rispetto di chi ha voluto denunciare e rileggerà la sua esperienza. Per rispetto di tutte quelle donne che hanno vissuto lo stesso atroce diritto violato e garantito dalla legge italiana. Lo abbiamo fatto perché quello che è stato trascritto è sufficiente per comprendere.
La donna, che un nome non vuole avere e che vedete nelle foto, è stata costretta a sottoporsi alla Emdr, tecnica di psicoterapia praticata ai reduci di guerra per superare i traumi subiti e lo ha potuto fare perché «benestante, colta e con un marito e una famiglia capace di aiutarla», come lei stessa ha detto. Ma non sempre è così. Ci sono donne che non possono permettersi un percorso terapeutico dopo un trauma. Famiglie distrutte e aborti negati. Donne costrette come ladre a emigrare in Paesi stranieri perché non riescono a trovare un medico che prenda in carico la loro cartella clinica, mentre in Italia si discute se la Ru-486, conosciuta come aborto farmacologico, possa essere applicato in day hospital, senza necessità di un ricovero di tre giorni. Quando quei tre giorni significano dover subire violenze psicologiche e fisiche.
Di Beatrice Dondi e Elena Testi, per L’Espresso
Una donna aiuta i bambini a studiare al lume di candela durante un'interruzione di corrente a Khan Yunis, Gaza. Dopo che Israele ha inasprito il blocco nella Striscia di Gaza, l'unica centrale elettrica della zona ha interrotto la produzione
(Foto di Mustafa Hassona / Anadolu Agency)