lunedì 14 giugno 2021

L' emigrante

 

Io sono uno che ha poche probabilità di esistenza. Infatti sono un emigrante. Sono tornato a casa dopo cinquant’anni. Per cinquant’anni ho abitato in un paese che non era il mio, con una lingua che non era la mia. In tutto questo tempo ho vissuto la mia vita per metà. L’altra metà l’ho lasciata qui al mio paese ed è inutile che ora la cerchi perché è scomparsa. Se mi aggrappo ai ricordi la mia memoria è piena di falle. Quando lasciai il luogo dove venni alla luce ero un ragazzetto. Mi ricordo il giorno che emigrai; era mattina e c’era una nuvola in cielo che faceva un grande buco nero sulla facciata della chiesa. Mi ricordo un albero immenso e scortecciato, pieno di vento. Mi ricordo la notte, senza lume, il freddo che occupava tutta la casa all’infuori della cucina. Queste cose non ci sono più e, buone o cattive erano le cose alle quali era attaccata la mia vita. Adesso nella mia piccola città natale tutto è diverso: il centro urbano si è trasformato, molte case sono scomparse, la campagna è fuggita sopra i monti e al suo posto sono cresciute fabbriche e capannoni. Se guardo oltre le mura non vedo nulla su cui possa posare lo sguardo con piacere. Del resto non mi allontano mai verso la periferia. Cammino nel centro e frequento i vecchi caffè sotto il loggiato. Tutto mi appare vagamente riconoscibile e al tempo stesso diverso, come sono le cose famigliari attraverso il sogno o i racconti. La fatica che faccio a riconoscere i luoghi è la stessa che ho con le persone. Un giorno un amico mi ha toccato sulla spalla, mi sono voltato e ci siamo entrambi guardati con paura come in uno specchio: tra grinze e peli bianchi abbiamo visto due occhi da bambini stravolti dal tempo. Un luogo che ancora mi piace è la piazza. Quando ero negli Stati Uniti, la città dove sono cresciuto in Italia, nella memoria, mi sembrava diventasse un orecchio di pietra che aveva per centro la piazza dove si raccoglievano e suonavano le voci della gente. In America era tutto diverso. Negli stati dove ero io, è tutta una pianura, una pianura senza fine.

E le strade sono immense e vanno chissà dove.

Non c’è un centro dove le strade vanno a congiungersi, non c’è una piazza, tutto corre in avanti all’infinito. Io lavoravo ai ponti. Stavo sospeso alle funi e vedevo la grande pianura. Dal basso si vedeva un grande cielo e tutto era stagliato contro di esso di profilo: cartelloni, garage, arcate di ponti. Poi, poco a poco, lo spazio entrò dentro di me. Prima, in Italia, ero un uomo di sassi e in America sono diventato un uomo di spazio. I miei occhi guardano sempre lontano. E anche la gente si teneva lontana. Così mi sono abituato alle distanze che prima dell’aeroplano erano immense. Il mio paese, l’Italia, era sparito. La nuova lingua cominciò a piovermi dentro e la mia vecchia lingua si nascose nel fondo della mente.

E quando qualche mese fa sono tornato, dopo cinquant’anni, quella lingua che credevo sepolta è venuta fuori chiara e pulita e mi ha riempito di meraviglia. Se non fosse per la lingua sarei completamente tagliato fuori da qui dove tutti mi chiamano l’Americano per il mio modo di vestire e per i miei occhiali d’oro. Benchè ora tutto sia ritornato più piccolo e vicino, io non mi sento in prossimità delle cose e delle persone. Io mi sento emigrato una seconda volta. La prima volta ero emigrato nelle spazio, questa volta sono emigrato nel tempo ed è ancora più doloroso. Le ragazzette che cantavano il Maggio negli anni prima della mia partenza sono diventate nonne o sono morte. Di loro mi è rimasta l’eco dei loro canti. Non c’è nulla su cui possa sfogare tutta la nostalgia che ho accumulato quando ero lontano e mi sento come derubato. La mia casa non c’è più. Mi sono comprato due stanze nella parte vecchia della città e sto in casa. Ho mobili solidi e poveri di legno pieno che mi ricordano quelli che avevo quando ero ragazzo. Viene a fare le pulizie una donna e una volta al giorno mi fa da mangiare. Mi piace stare in casa. Ieri scendendo le scale mi sono accorto di essermi fermato come faceva mia madre, che aveva sempre paura dell’ultimo scalino. Cosa faccio? Sto vicino alla finestra e raccolgo il tempo, dove si è perduta la mia vita.

Nino Pedretti,  da “Monologhi e racconti” 

 


 

 

 

 

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