Anche considerando le cose
nel modo migliore, una mente racchiusa nel linguaggio è in prigione. Il suo
limite è la quantità di relazioni che le parole possono rendere presenti
contemporaneamente alla sua mente. Resta ignorante dei pensieri che implicano
la combinazione di un maggior numero di relazioni; questi pensieri sono fuori
del linguaggio, non formulabili, benché siano perfettamente rigorosi e chiari e
benché ciascuna delle relazioni che li compone sia esprimibile con parole
perfettamente precise. Così la mente si muove in uno spazio chiuso di verità
parziali, che del resto può essere più o meno grande senza poter mai gettare
uno sguardo su ciò che è fuori.
Se una mente prigioniera
ignora la propria prigionia vive nell’errore. Se l’ha riconosciuta, sia pure
per un decimo di secondo, e se si è affrettata a dimenticarla per non soffrire,
vive nella menzogna. Uomini dall’intelligenza estremamente brillante possono
nascere, vivere e morire nell’errore e nella menzogna. In questi l’intelligenza
non è un bene e neanche un vantaggio. La differenza tra uomini più o meno
intelligenti è come la differenza tra criminali e condannati a vita alla galera
le cui celle siano più o meno grandi. Un uomo intelligente ed orgoglioso della
sua intelligenza assomiglia ad un condannato orgoglioso di avere una cella
grande. Una mente che sente la propria prigionia vorrebbe dissimularla. Ma se
ha orrore della menzogna, non lo farà. Dovrà allora soffrire molto. Batterà la
testa contro la muraglia fino allo svenimento; si sveglierà, guarderà la
muraglia con timore, poi un giorno ricomincerà e sverrà di nuovo e così di
seguito, senza fine, senza alcuna speranza. Un giorno si sveglierà dall’altra
parte del muro. Forse è ancora prigioniero, in una cornice soltanto più
spaziosa. Che importa? Ormai possiede la chiave, il segreto che fa cadere tutti
i muri. È al di là che ciò che gli
uomini chiamano intelligenza, dove comincia la saggezza.
Simone Weil, La
Persona e il Sacro
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