(…) la Maga amava tutti gli
inverosimili guai in cui si trovava fino al collo per via del fallimento d’ogni
legge nella sua vita. Era di quelle che fanno crollare i ponti quando li
attraversano, o che si ricordano fra strilli e pianti di aver visto in una
vetrina il biglietto della lotteria vincitore dei cinque milioni. Da parte mia,
mi ero ormai abituato al fatto che mi capitassero cose modestamente eccezionali,
e non trovavo troppo orribile che entrando in una stanza al buio per prendere
un 33 giri, sentissi brulicare nel palmo della mano il corpo vivo d’un
centopiedi gigante che aveva scelto di dormire sulla copertina del disco.
Questo, e trovare dei pelacci grigi o verdi in un pacchetto di sigarette, o
sentire il fischio di una locomotrice esattamente nel momento e con il tono
necessario per incorporarsi ex officio in un passaggio di una sinfonia di
Ludwig van, o entrare in una pissotière di rue de Medicis e vedere un uomo
intento ad orinare diligentemente fino al momento in cui, allontanandosi dal
suo settore, si girava verso di me e mi mostrava, sostenendolo con il palmo
della mano, come un oggetto liturgico e prezioso, un membro di dimensioni e colori
incredibili, e nello stesso attimo accorgermi che quell’uomo era esattamente
uguale a un altro (anche se non era quell’altro) che ventiquattro ore prima,
nella Salle de Geographie, aveva dissertato su totem e tabu, ed aveva mostrato
al pubblico, sostenendoli bellamente sul palmo della mano, bacchette d’avorio,
piume di uccelli del paradiso, monete rituali, fossili magici, stelle di mare,
pesci disseccati, fotografie di concubine reali, offerte di cacciatori, enormi
scarabei imbalsamati che facevano fremere di spaventata delizia le immancabili
signore. Insomma, non è facile parlare della Maga che a quest’ora sta
certamente girando per Belleville o per Pantin, intenta a guardare per terra
fin quando non abbia trovato qualcosa di rosso. Se non lo trova continuerà cosi
per tutta la notte, frugherà nei secchi della spazzatura, gli occhi vitrei,
convinta che qualcosa d’orrendo le capiterà se non troverà quel pegno del
riscatto, indice di perdono o di rinvio. So cosa significa perche anch’io
obbedisco a questi segni, ci sono volte in cui anch’io devo trovare uno
straccetto rosso. Fin da bambino, appena mi cade per terra qualcosa devo
tirarlo su, qualunque cosa sia, perche se non lo faccio capiterà una disgrazia,
non a me ma a qualcuno cui voglio bene, e il cui nome comincia con l’iniziale
dell’oggetto caduto. Il guaio è che niente puo trattenermi quando qualcosa mi
cade per terra, e non vale che sia un altro a raccoglierlo perchè il maleficio
agirebbe ugualmente. Per questa ragione sono passato molte volte per pazzo e la
verità e che sono preso da follia quando agisco così, quando mi precipito a
raccattare una matita o un pezzetto di carta che mi sia scivolato di mano, come
la sera della zolletta di zucchero nel ristorante di rue Scribe, un ristorante
elegante frequentato da dirigenti, da puttane con la volpe argentata e da
coppie bene assortite. Eravamo con Ronald ed Etienne, e a me cadde una zolletta
di zucchero che andò a finire sotto un tavolo abbastanza lontano dal nostro. La
prima cosa che attirò la mia attenzione fu il modo con cui la zolletta si era
allontanata, perchè in generale le zollette di zucchero s’immobilizzano appena
toccano terra per ragioni parallelepipede evidenti. Ma quella si comportava
come se fosse stata una pallina di naftalina, cosa che aumento la mia
apprensione, e giunsi a credere che veramente me l’avessero strappata di mano.
Ronald, che mi conosce, guardò verso il punto dove era andata a fermarsi la
zolletta, e comincio a ridere. Questo mi fece ancor piu paura, insieme a
rabbia. Un cameriere si avvicinò pensando che mi fosse caduto qualcosa di
prezioso, una Parker o una dentiera, ottenendo solo d’infastidirmi, per cui,
senza chiedere scusa, mi gettai a terra e cominciai a cercare la zolletta di
zucchero fra le scarpe della gente che se ne stava con grande curiosità (e a
ragione) credendo che si trattasse di qualcosa di importante. Al tavolo era
seduta una cicciona con i capelli rossi, un’altra meno grassa ma altrettanto
puttana, e due dirigenti o qualcosa di simile. Innanzi tutto mi resi conto che
la zolletta era invisibile, e dire che l’avevo vista saltare fino a quelle
scarpe (che si muovevano inquiete come galline). Per colmo di disgrazia c’era
il tappeto, e sebbene facesse schifo tanto era usato, la zolletta era dovuta
andare a nascondersi fra i peli, ma non riuscivo a trovarla. Il cameriere si
distese dall’altra parte del tavolo, ed ormai eravamo due quadrupedi che si
muovevano fra le scarpe-gallina che lassù cominciavano a starnazzare come
pazze. Il cameriere continuava ad essere convinto della Parker o del Luigi
d’oro, e quando eravamo ormai infilati sotto il tavolo, in una specie di grande
intimità e penombra, e lui mi domandò e io risposi, fece una faccia che era da
spruzzare con un fissatore, ma io non avevo nessuna voglia di ridere, la paura
mi aveva chiuso a doppio giro la bocca dello stomaco e infine fui preso da una
vera disperazione (il cameriere si era alzato furibondo) e cominciai ad
afferrare le scarpe delle donne e a guardare se sotto l’arco della suola non si
fosse acquattata la zolletta, e le galline starnazzavano, i galli dirigenti mi
beccavano la schiena, sentivo le risate di Ronald e di Etienne mentre mi
spostavo da un tavolo all’altro fin quando non ebbi trovato lo zucchero
nascosto dietro una gamba Secondo Impero. E tutti quanti furibondi, persino io
con lo zucchero stretto nel palmo della mano, sentendo in qual modo si
mescolava al sudore della pelle, in qual modo, schifosamente, si scioglieva in
una sorta di vendetta appiccicosa, questo genere di episodi tutti i giorni.
Cortazar, Il gioco del
mondo
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