sabato 6 dicembre 2014

Maga



(…) la Maga amava tutti gli inverosimili guai in cui si trovava fino al collo per via del fallimento d’ogni legge nella sua vita. Era di quelle che fanno crollare i ponti quando li attraversano, o che si ricordano fra strilli e pianti di aver visto in una vetrina il biglietto della lotteria vincitore dei cinque milioni. Da parte mia, mi ero ormai abituato al fatto che mi capitassero cose modestamente eccezionali, e non trovavo troppo orribile che entrando in una stanza al buio per prendere un 33 giri, sentissi brulicare nel palmo della mano il corpo vivo d’un centopiedi gigante che aveva scelto di dormire sulla copertina del disco. Questo, e trovare dei pelacci grigi o verdi in un pacchetto di sigarette, o sentire il fischio di una locomotrice esattamente nel momento e con il tono necessario per incorporarsi ex officio in un passaggio di una sinfonia di Ludwig van, o entrare in una pissotière di rue de Medicis e vedere un uomo intento ad orinare diligentemente fino al momento in cui, allontanandosi dal suo settore, si girava verso di me e mi mostrava, sostenendolo con il palmo della mano, come un oggetto liturgico e prezioso, un membro di dimensioni e colori incredibili, e nello stesso attimo accorgermi che quell’uomo era esattamente uguale a un altro (anche se non era quell’altro) che ventiquattro ore prima, nella Salle de Geographie, aveva dissertato su totem e tabu, ed aveva mostrato al pubblico, sostenendoli bellamente sul palmo della mano, bacchette d’avorio, piume di uccelli del paradiso, monete rituali, fossili magici, stelle di mare, pesci disseccati, fotografie di concubine reali, offerte di cacciatori, enormi scarabei imbalsamati che facevano fremere di spaventata delizia le immancabili signore. Insomma, non è facile parlare della Maga che a quest’ora sta certamente girando per Belleville o per Pantin, intenta a guardare per terra fin quando non abbia trovato qualcosa di rosso. Se non lo trova continuerà cosi per tutta la notte, frugherà nei secchi della spazzatura, gli occhi vitrei, convinta che qualcosa d’orrendo le capiterà se non troverà quel pegno del riscatto, indice di perdono o di rinvio. So cosa significa perche anch’io obbedisco a questi segni, ci sono volte in cui anch’io devo trovare uno straccetto rosso. Fin da bambino, appena mi cade per terra qualcosa devo tirarlo su, qualunque cosa sia, perche se non lo faccio capiterà una disgrazia, non a me ma a qualcuno cui voglio bene, e il cui nome comincia con l’iniziale dell’oggetto caduto. Il guaio è che niente puo trattenermi quando qualcosa mi cade per terra, e non vale che sia un altro a raccoglierlo perchè il maleficio agirebbe ugualmente. Per questa ragione sono passato molte volte per pazzo e la verità e che sono preso da follia quando agisco così, quando mi precipito a raccattare una matita o un pezzetto di carta che mi sia scivolato di mano, come la sera della zolletta di zucchero nel ristorante di rue Scribe, un ristorante elegante frequentato da dirigenti, da puttane con la volpe argentata e da coppie bene assortite. Eravamo con Ronald ed Etienne, e a me cadde una zolletta di zucchero che andò a finire sotto un tavolo abbastanza lontano dal nostro. La prima cosa che attirò la mia attenzione fu il modo con cui la zolletta si era allontanata, perchè in generale le zollette di zucchero s’immobilizzano appena toccano terra per ragioni parallelepipede evidenti. Ma quella si comportava come se fosse stata una pallina di naftalina, cosa che aumento la mia apprensione, e giunsi a credere che veramente me l’avessero strappata di mano. Ronald, che mi conosce, guardò verso il punto dove era andata a fermarsi la zolletta, e comincio a ridere. Questo mi fece ancor piu paura, insieme a rabbia. Un cameriere si avvicinò pensando che mi fosse caduto qualcosa di prezioso, una Parker o una dentiera, ottenendo solo d’infastidirmi, per cui, senza chiedere scusa, mi gettai a terra e cominciai a cercare la zolletta di zucchero fra le scarpe della gente che se ne stava con grande curiosità (e a ragione) credendo che si trattasse di qualcosa di importante. Al tavolo era seduta una cicciona con i capelli rossi, un’altra meno grassa ma altrettanto puttana, e due dirigenti o qualcosa di simile. Innanzi tutto mi resi conto che la zolletta era invisibile, e dire che l’avevo vista saltare fino a quelle scarpe (che si muovevano inquiete come galline). Per colmo di disgrazia c’era il tappeto, e sebbene facesse schifo tanto era usato, la zolletta era dovuta andare a nascondersi fra i peli, ma non riuscivo a trovarla. Il cameriere si distese dall’altra parte del tavolo, ed ormai eravamo due quadrupedi che si muovevano fra le scarpe-gallina che lassù cominciavano a starnazzare come pazze. Il cameriere continuava ad essere convinto della Parker o del Luigi d’oro, e quando eravamo ormai infilati sotto il tavolo, in una specie di grande intimità e penombra, e lui mi domandò e io risposi, fece una faccia che era da spruzzare con un fissatore, ma io non avevo nessuna voglia di ridere, la paura mi aveva chiuso a doppio giro la bocca dello stomaco e infine fui preso da una vera disperazione (il cameriere si era alzato furibondo) e cominciai ad afferrare le scarpe delle donne e a guardare se sotto l’arco della suola non si fosse acquattata la zolletta, e le galline starnazzavano, i galli dirigenti mi beccavano la schiena, sentivo le risate di Ronald e di Etienne mentre mi spostavo da un tavolo all’altro fin quando non ebbi trovato lo zucchero nascosto dietro una gamba Secondo Impero. E tutti quanti furibondi, persino io con lo zucchero stretto nel palmo della mano, sentendo in qual modo si mescolava al sudore della pelle, in qual modo, schifosamente, si scioglieva in una sorta di vendetta appiccicosa, questo genere di episodi tutti i giorni.

Cortazar, Il gioco del mondo



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