Il
nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere)
troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli
sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il
senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo
soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati
nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante.
(...) Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto
insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e
vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia.
E
ora veniamo alla povertà. Povertà non è miseria, come credono i
miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come
credono i miei rozzi obiettori di destra. Povertà è una ideologia,
politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari,
quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la
casa necessaria e non superflua. (...)
Povertà
vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso
economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il
prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si
compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui
sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di
comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve
durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio
dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà
è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente
obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il
vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere
questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a
protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione
elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla
vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal
nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un
intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola
cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle
voci e del linguaggio televisivi.
(...)
Il
nostro paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali,
poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi
buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento
economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita,
uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di
astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura,
come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è
riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal
cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di
mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della
ricchezza e invece sono schiavitù. (...)
Il
nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché
sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si
mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli
“etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini
linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le
ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per
mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus
vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
(...)
La
povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per
necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori
di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione
di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare
un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello
spazio, ci emoziona.
(…)
La
povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo
infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola
sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere
che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una
proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo
capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà
il nostro paese.
Goffredo
Parise, “Il
rimedio è la povertà”,
articolo
pubblicato nel
giugno 1974
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