Sapete davvero cosa fa e come vive ogni giorno chi lavora per le Ong?
Mia
sorella si arrabbierà tantissimo per il fatto che io racconterò in
modo esemplare la sua storia, e questo succederà perché è una
storia vera. Cioè io sono proprio io, Valeria, che la racconto, e la
protagonista è proprio lei. Ma, qualche tempo fa, Roberto Saviano
chiese a ciascuno di noi di non fare solo bene ciò che si fa meglio,
ma fare qualcosa di più, esporsi un poco in più. Così, quando mia
sorella si arrabbierà, io le dirò di prendersela con lui, il quale
già è l’indirizzario di cattiverie gratuite, e potrà ben
sopportare anche il suo broncio motivato.
Mia
sorella faceva il liceo classico, quando, durante il terzo anno,
cominciò a manifestare un disagio crescente. Andava abbastanza bene
a scuola, così non posso dire che fosse per colpa del greco antico:
più che altro lei avvertiva una discrepanza
troppo evidente tra ciò che sentiva nell’anima e ciò che metteva
in atto nella vita,
tra ciò che studiava (la filosofia, i tragici) e ciò che accadeva
intorno a lei. Credo, eh (sulle mie interpretazioni non mi parlerà
per sei mesi buoni). Fatto
sta che in maniera un po’ rocambolesca, visto che si era agli
albori di internet, scoprì che avrebbe potuto finire
l’ultimo biennio in un college della Croce rossa
(Red Cross Nordic si chiamava, o giù di lì. Purtroppo verificare
significherebbe chiederglielo, ma capite bene che questo la farebbe
pre-arrabbiare).
Così a poco più di quindici anni se ne andò per due anni a studiare (con una borsa di studio: i nostri genitori non si sarebbero mai potuti permettere una retta) in un posto dove c’erano 200 ragazzi che venivano da 80 paesi del mondo diversi. Al ritorno si iscrisse all’Università Orientale di Napoli, ma anche qui, dopo qualche anno, cominciò a manifestarsi in lei un disagio crescente. Poiché aveva voti altissimi che prendeva con la facilità di chi scorre nel grande fiume della vita, non posso dire che l’insofferenza fosse dovuta all’ateneo. Piuttosto: avvertiva una discrepanza troppo evidente tra ciò che sentiva nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che studiava (l’Europa dei popoli, le lingue) e ciò che accadeva intorno a lei. Credo, eh (qui non mi parlerà per nove mesi buoni).
E allora, siccome ormai sapeva l’inglese meglio dell’italiano (e almeno altre sei lingue tra cui lo swahili), se ne partì di nuovo.
Così a poco più di quindici anni se ne andò per due anni a studiare (con una borsa di studio: i nostri genitori non si sarebbero mai potuti permettere una retta) in un posto dove c’erano 200 ragazzi che venivano da 80 paesi del mondo diversi. Al ritorno si iscrisse all’Università Orientale di Napoli, ma anche qui, dopo qualche anno, cominciò a manifestarsi in lei un disagio crescente. Poiché aveva voti altissimi che prendeva con la facilità di chi scorre nel grande fiume della vita, non posso dire che l’insofferenza fosse dovuta all’ateneo. Piuttosto: avvertiva una discrepanza troppo evidente tra ciò che sentiva nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che studiava (l’Europa dei popoli, le lingue) e ciò che accadeva intorno a lei. Credo, eh (qui non mi parlerà per nove mesi buoni).
E allora, siccome ormai sapeva l’inglese meglio dell’italiano (e almeno altre sei lingue tra cui lo swahili), se ne partì di nuovo.
Andò a Dharamsala, sul confine tra India e Cina,
dove, appena sotto l’Himalaya, ha insegnato inglese ai piccoli
rifugiati tibetani. Minori non accompagnati, si direbbero. Mangiava
latte non pastorizzato, e riso e radici, e ha visto il Dalai Lama
risalire su da una vallata. Quando è tornata ha dato una tesi di
laurea sul conflitto sinotibetano: con orgoglio di sorella posso dire
che… No, non posso, ma avete capito da soli che ne sapeva più
della commissione. Infatti vinse subito uno stage a Roma presso la
sede di un ministero.
Eppure
prestissimo sviluppò una insofferenza verso la vita che menava, e
siccome il ruolo che occupava era molto ambito, potrei pensare che
avvertiva una discrepanza troppo evidente tra ciò che sentiva
nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che
agiva (correggere l’inglese dei fax, protocollare i fax, mandare i
fax) e ciò che accadeva intorno a lei. Credo, eh. E così andò a
lavorare
per una Organizzazione non governativa in Spagna,
e noi tutti ne fummo rasserenati perché la sentivamo finalmente in
pace.
E invece da lì cominciarono le nostre tribolazioni famigliari:
quella scellerata se ne partì con Medici
senza Frontiere
(e anche senza WhatsApp, che non esisteva ancora). Ci lasciò il
recapito della Farnesina e si sottopose a certe vaccinazioni che, a
elencarle qui, i no-vax incanutirebbero all’istante. Le dissero che
questa bomba vaccinale avrebbe potuto avere due conseguenze (oltre a
salvarle la vita): febbre alta o ilarità. Passò la notte a
rotolarsi sul pavimento per le risate e dopo partì.
Elenco
in ordine sparso quello che ci porta fino a oggi: è
stata ad Haiti dopo il terremoto
(e durante la notte dice che in una chiesa lì vicino facevano un
processo di zombificazione). È stata nella Repubblica
Centroafricana un paio di volte
(una era per l’ebola: ha viaggiato su una jeep che stava poggiata
su una zattera, come la controfigura di Harrison Ford).
Ha dormito in posti dove alle 18 si chiudevano i generatori e bisognava essere molto zen per far spuntare giorno (e avere radio a pile, pile buone); è stata avvolta come una mummia in un lenzuolo bagnato per 24 ore, per ambientarsi a un clima di 50 gradi diurni, prima di prendere servizio. È stata in Nigeria, ha viaggiato con una guardia armata e con una busta di dollari addosso da scambiare in caso volessero rapirla.
Ha dormito in posti dove alle 18 si chiudevano i generatori e bisognava essere molto zen per far spuntare giorno (e avere radio a pile, pile buone); è stata avvolta come una mummia in un lenzuolo bagnato per 24 ore, per ambientarsi a un clima di 50 gradi diurni, prima di prendere servizio. È stata in Nigeria, ha viaggiato con una guardia armata e con una busta di dollari addosso da scambiare in caso volessero rapirla.
Quando
la tecnologia si è evoluta per noi non è stato meglio: ne abbiamo
saputo di più, come quella volta alla festa della donna che ci mandò
una foto sorridente con le mimose in mano e dietro c’erano delle
tapparelle abbassate in pieno giorno: c’erano i bombardamenti, a
Damasco.
Fu la stessa volta che, rientrata in Libano, nostro padre chiosò:
«Viviamo il paradosso di dirci felici perché è arrivata a Beirut».
Ha spianato pezzi di savana per farci atterrare i Piper, ha convinto
capivillaggio, in swahili (lei: bianca, femmina e che parla un
napoletano ridicolo) che era meglio che quelle signore di cui era
capo partorissero nell’ospedale da campo. Adesso dirò una cosa che
ha dell’incredibile:
ha fatto campagne di vaccinazione dal morbillo
e per settimane le donne si sono messe in fila sotto il sole con i
bambini in braccio per ricevere quella vaccinazione. Di quello che ha
visto e fatto, in quindici anni, non ci ha mai raccontato molto,
dettagli pochissimi, credo che sia una questione di rispetto.
Qui
bisogna fare un inciso. I cooperanti delle Ong se ne stavano per i
fatti loro a lavorare, senza tanto raccontarla in giro: perché
quella è la loro vita, e solo degli scrittori fanatici possono
pensare che la propria vita sia l’oggetto di una narrazione. Ma poi
è cominciato un contro racconto, un racconto diverso su quello che
fanno le Ong. A
un certo punto andavo in un taxi e il tassista diceva che le Ong
erano d’accordo con gli scafisti nella tratta del Mediterraneo.
Andavo dal fruttivendolo e una signora diceva che era colpa delle Ong
se morivano i bambini in mare, andavo su Twitter e certi ministri si
vantavano di aver chiuso i porti alle Ong. Si vede che ciascuno di
loro aveva una sorella che lavora in una Ong, e quindi anch’io
rischierò qualcosa della mia pace famigliare raccontando quello che
so: un giorno hanno mandato un ragazzo dell’età di mio figlio a
mettersi una protesi alla gamba saltata su una mina, e lui era felice
di salire sull’elicottero, come un ragazzo della sua età. Due sue
colleghe sono state rapite. Ad Abuja ha tenuto tra le braccia una
bambina di quattro anni abusata. Tanti
suoi colleghi sono morti sotto i bombardamenti negli ospedali.
Una ragazza di sedici anni è morta invece a pochi metri
dall’ospedale: aveva il colera, stava cercando di salvarsi. Una
volta mia sorella mi ha detto: «È peggio morire di sete che morire
di fame», e io ho sofferto per lei perché ho capito che sapeva di
cosa parlava.
Ma quello che volevo dire io, rischiando di essere cancellata dalle foto di famiglia natalizie, è che le Ong sono fatte di persone così. Quando si chiudono i porti alle Ong è a donne come mia sorella che si sta rendendo difficile il lavoro e si sta chiedendo di giustificarne il senso, non ai torturatori, ai caporali, ai mafiosi. Non a quelli che fabbricano le mine antiuomo e a chi ordina di seppellirle sulla strada che percorrerà il bambino. Non all’uomo che ha stuprato una bambina di quattro anni (e certo, alla sorella del tassista, della signora che compra la frutta e di quelli che scrivono su Twitter).
Ma quello che volevo dire io, rischiando di essere cancellata dalle foto di famiglia natalizie, è che le Ong sono fatte di persone così. Quando si chiudono i porti alle Ong è a donne come mia sorella che si sta rendendo difficile il lavoro e si sta chiedendo di giustificarne il senso, non ai torturatori, ai caporali, ai mafiosi. Non a quelli che fabbricano le mine antiuomo e a chi ordina di seppellirle sulla strada che percorrerà il bambino. Non all’uomo che ha stuprato una bambina di quattro anni (e certo, alla sorella del tassista, della signora che compra la frutta e di quelli che scrivono su Twitter).
Ogni
volta che si interrompe una rotta che dalla fame e dalla guerra porta
verso l’Europa, dal mare o dai Balcani, ogni volta che si nega un
corridoio umanitario, e ci si vanta di averlo fatto è quella ragazza
di sedici anni che si fa cadere a pochi passi dall’ospedale, che
sta scappando dal colera e voleva salvarsi. Quando si temono gli
extracomunitari, si fanno le ronde contro gli stranieri, si fanno i
migranti di serie A (profughi di guerra) e quelli di serie B
(economici) non si sta davvero scendendo nel cuore del problema,
perché lì dentro c’è scritta solo una frase: «È peggio morire
di sete che morire di fame».
E
quello che volevo anche dire è che ognuno di questi posti che vi ho
elencato è stato la casa di mia sorella. Li ha aiutati tutti a casa
sua. La casa di mia sorella è la Nigeria, Haiti e Damasco e il
Tibet, la Repubblica Centroafricana e di certo anche l’Italia, dove
ci sono irrazionali scrittori meridionali con cui giustamente da
domani potrà prendersela.
Valeria Parrella
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