Senza
occhiali, cioè, il mio sguardo malato agisce in un modo
costitutivamente indiziario e metamorfico. Io non vedo figure: le
indovino. Dal mio campo visivo emergono soltanto venature,
ectoplasmi, larve, organismi vibranti. Dove l'ombreggiatura si
dirada, scorgo linee sinuose, serpentine, sul punto di indicare un
oggetto preciso ma insieme reticenti. Reticenti e riluttanti: ecco i
termini più esatti. Il mondo-schermo, interrogato, prende tempo e
cerca di eludere una risposta circostanziata. La sua fisionomia
rimane sulla soglia dell’apparizione. Tergiversa. Se qualche segno
giunge ad essere identificato, gli altri restano indietro, appena
abbozzati, fossili ottici, impronte, lineamenti trattenuti sotto il
pelo dell'acqua, pronti a affiorare benché ancora indiscernibili.
Così, mi muovo in uno stato di perenne pre-comprensione e allerta.
La
mia banale e lieve patologia fa sì che l'attenzione venga
spontaneamente rivolta non alle cose, bensì alle loro condizioni di
visibilità. Tutto il mio sforzo, infatti, consiste nel cogliere il
momento in cui il segnale, uscendo dal rumore di fondo, si lascia
individuare. Io do la caccia al transito percettivo, all'irruzione
dell'indistinto entro il cono di luce del senso, al suo farsi figura.
Gli strani ideogrammi che popolano questo paesaggio da miope
corrispondono all'alfabeto di una lingua in procinto d'essere
decifrata, immobilizzata nello spazio magico che precede ed annuncia
la concezione del significato come compimento della traduzione.
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