sabato 2 marzo 2019

Arte della miopia




Senza occhiali, cioè, il mio sguardo malato agisce in un modo costitutivamente indiziario e metamorfico. Io non vedo figure: le indovino. Dal mio campo visivo emergono soltanto venature, ectoplasmi, larve, organismi vibranti. Dove l'ombreggiatura si dirada, scorgo linee sinuose, serpentine, sul punto di indicare un oggetto preciso ma insieme reticenti. Reticenti e riluttanti: ecco i termini più esatti. Il mondo-schermo, interrogato, prende tempo e cerca di eludere una risposta circostanziata. La sua fisionomia rimane sulla soglia dell’apparizione. Tergiversa. Se qualche segno giunge ad essere identificato, gli altri restano indietro, appena abbozzati, fossili ottici, impronte, lineamenti trattenuti sotto il pelo dell'acqua, pronti a affiorare benché ancora indiscernibili. Così, mi muovo in uno stato di perenne pre-comprensione e allerta.

La mia banale e lieve patologia fa sì che l'attenzione venga spontaneamente rivolta non alle cose, bensì alle loro condizioni di visibilità. Tutto il mio sforzo, infatti, consiste nel cogliere il momento in cui il segnale, uscendo dal rumore di fondo, si lascia individuare. Io do la caccia al transito percettivo, all'irruzione dell'indistinto entro il cono di luce del senso, al suo farsi figura. Gli strani ideogrammi che popolano questo paesaggio da miope corrispondono all'alfabeto di una lingua in procinto d'essere decifrata, immobilizzata nello spazio magico che precede ed annuncia la concezione del significato come compimento della traduzione.
Valerio Magrelli, L’arte della miopia 

 
 
 
 
 
 
 

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