Patrizia Cavalli, Todi, 17 aprile 1947 – Roma, 21 giugno 2022
Adesso
che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo
e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si
scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per
il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che
ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove
non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in
fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo
che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e
silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della
voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.
Quante
tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la
cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un
pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un
guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla
gattina.
Così dimentico sempre
l’idea principale, mi
perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è
vano
tentare qualsiasi ritorno.
Addosso
al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul
viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie
disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte
cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano
soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra
perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e
stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in
segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i
calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova
faccia.
E’ tutto così semplice,
sì, era così
semplice,
è tale l’evidenza
che quasi non ci credo.
A
questo serve il corpo:
mi tocchi o non mi tocchi,
mi
abbracci o mi allontani.
Il resto è per i pazzi.
Patrizia Cavalli, da “Amore non mio e neanche tuo”
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