Il
ragno si annoia, ma non sa di annoiarsi. Ha già percorso diverse
volte la sua tela e ha rammendato gli squarci; poi, per fare
qualcosa, ci ha aggiunto qua e là delle piccole migliorie, piuttosto
inutili poiché nessuno arriva.
È
stato uno sbaglio tessere una ragnatela in quel posto così
solitario. Infastidito dai calabroni che gli stracciavano la tela per
poi andarsene come erano venuti, il ragno ha scelto un angolo sicuro
ma deserto, e ora si annoia. A volte un seme leggero, portato dal
vento, si imbatte nei fili; il ragno si affaccia, diffidente e
speranzoso, fa per avvicinarsi, capisce che è stato un falso allarme
e rientra nella sua galleria conica insaccata tra due foglie morte.
Tanto lavoro per niente.
Alla
fine il ragno lascia la sua tela e va a fare quattro passi
sull'oleandro in fiore. Si sente nell'addome la voglia di fare dei
fili, tanti fili. Ne attacca uno a un ramo e si lascia cadere, appeso
alla cordicella lucida che gli vien fuori dal ventre: è il suo
passatempo preferito, quando non sa che fare. Il suo corpo come un
carboncino luccica dondolandosi al sole; un'aria tiepida gli carezza
i peli neri delle zampe. Finché non viene avvistato da un passero in
volo; svelto, l'uccello gli si getta sopra, ma lui si è accorto del
pericolo e si e lasciato cadere mezzo metro più in basso. Il passero
urta contro il filo appiccicoso e prosegue il volo trascinandosi
dietro il ragno appeso. Finalmente il ragno cade a terra e ancora
scosso dall'emozione riprende la strada verso la tela abbandonata,
ostinato, invece di fermarsi lì e tesserne un'altra.
Wilcock, Lo
stereoscopio dei solitari
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