Un pugno di riso. Un'espressione diventata metaforica che ho ritrovato, drammaticamente concreta, a Makallè, in Etiopia, dove si concentravano, in un campo fuori dal centro abitato, i fuggiaschi da una delle ricorrenti siccità che devastano quel paese. In quel campo morivano cinquanta persone al giorno. Per paradossale iperbole visiva – lì accanto c’era stato un macello a cielo aperto – si ammucchiavano migliaia di ossa e crani bianchi di animali che sembravano un monito minaccioso per i vivi che dopo marce di settimane erano riusciti, stremati, ad arrivare in quel luogo di possibile salvezza, al campo, specialmente la notte, saliva un suono spaventoso, come se quelle migliaia di persone fossero diventate un solo corpo dal quale esalava straziante un unico lamento. Anche lì piccole mani nere aperte per pochi grammi di grano, per un salvifico pugno di bianca farina. Le persone arrivavano a migliaia. A un certo punto, in una tenda della Croce Rossa, mi ritrovai a fotografare dei gesti incomprensibili. C’era una fila di bambini che sembravano usciti da Auschwitz. Gli infermieri li pesavano e misuravano. Mentre fotografavo mi domandai a che cosa potesse servire un’operazione del genere mentre la gente moriva come le mosche. Chiesi perché. Mi spiegarono che in questo modo selezionavano quelli che avevano bisogno di un intervento urgente, tralasciando gli altri per i quali era troppo tardi. Mi sembrò una cosa troppo terribile e inaccettabile, per quanto razionale.
Ebbi una specie di collasso psicologico: non riuscivo più a fare le foto. Troppo dolore; che senso ha fare foto in una situazione del genere? mi chiedevo. Andai a trovare un medico italiano che avevo incontrato e gli dissi che non volevo più fotografare, che mi trovasse qualcosa di utile da fare. Era un uomo intelligente; mi rispose che aveva altro di cui occuparsi che delle crisi di un fotografo e che non gli facessi perdere tempo. Erano le dieci del mattino, stavo male. Ero bloccato. Volevo tornarmene indietro. Verso le sei e mezza, sempre arrovellandomi su torno o non torno, come faccio a fotografare, mi sono accorto che i miei pensieri stavano prendendo altre direzioni. Solo dopo un bel po’ mi resi conto che cominciavo a sentire fame e a domandarmi che cosa e dove potessi mangiare. Più la fame aumentava e meno ero oppresso dal fatto che lì intorno vedevo la morte fare strage, mi laceravo sempre meno sul significato di fotografare, mentre invece sempre di più pensavo che, semplicemente, avevo fame. Lentamente riemersi, cominciai a riflettere sul fatto che il mio corpo esisteva, esisteva la mia necessità fisica, più impellente e pervasiva di ogni blocco psicologico e morale. Che potevo fuggire dal dolore degli altri, non dalla mia fame, non dal mio corpo.
Fai il fotografo? Non è questo che volevi fare? Fallo bene allora. Cerca di mettere nelle tue foto la tua angoscia e la tua pietà. Non pretendere di cambiare il mondo con la tua fragilità. Non fuggire. Tornai a fare il mio mestiere. È una lezione che non ho più dimenticato.
Ferdinando
Scianna (parlando
di un suo servizio a Makallé, in Etiopia, piagata da una carestia)
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