Un
giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi
osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo. Non me n’ero
accorta. Era una zoppia quasi impercettibile, poco più di una
disarmonia nel passo, un ritmo sbagliato. A lungo non se ne comprese
il motivo. La sensazione era che mi si stesse seccando la gamba
destra, come talvolta capita che su un albero secchi un ramo. Stavo
io stessa appassendo. Morire non era più una speculazione
intellettuale, stava realmente accadendo. Molto lentamente e prima
del previsto. Lasciandomi forse il tempo di scrivere in presa diretta
del giardiniere di fronte alla morte.
(…)
Compresi
che non avrei realizzato il mio desiderio di morire sulle mie gambe.
Qualcosa che ero avvezza a considerare mio sacrosanto diritto.
Qualcosa di cui, per anni, ero stata fiera in anticipo. Troppo
anticipo.
(...)
Cos’è
cambiato nel mio rapporto col giardino?
È
cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente da una
pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare,
appassire, perdere pezzi, e soprattutto: non muovermi come vorrei.
Lungi dal vedermi come colei da cui dipende il benessere del
giardino, mi so esposta alle contingenze, vulnerabile. Se il giardino
era stato il luogo dove contemplare metamorfosi e impermanenza,
adesso l’accelerazione della corrente mi costringe a rendermi conto
di esservi io stessa immersa. Non sono più un osservatore esterno,
qualcuno che dispone e amministra. Mi trovo io stessa in balia.
(...)
Non
sono più la stessa persona. Alla diversa andatura, alla lentezza nel
camminare, la circospezione con cui procedo di passo in passo, la
cautela con cui considero se valga davvero la pena di muoversi o no,
corrisponde una percezione nuova del mondo. Credo che adesso non
proverei più lo stesso stupore misto a diffidenza di fronte alle
opere di un’artista scandinava che, anni fa, venne a trovarmi nel
mio podere. Mentre passeggiavamo, non faceva che chinarsi per
raccattare frutti rinsecchiti, foglie appassite, baccelli anneriti
dalle intemperie. (...) C’è
voluto tempo per cominciare a capire. Non immaginavo tuttavia che,
ben presto, mi sarei percepita anch’io come quelle povere cose
raccattate, al punto d’incontro tra due energie: conservazione e
distruzione. Organismi in decadenza, in bilico tra essere e non
essere. Chissà che un momento prima di venir meno non si
manifestino, con intensità forse acuita, se non vera e propria
bellezza, un pathos, un’espressività insospettati. Quasi che,
rendendo l’anima a Dio, le cose sprigionassero, per un attimo e
quell’attimo soltanto, una qualità che passa inosservata quando il
corpo, godendo perfetta salute, è troppo turgido, troppo opaco,
troppo spesso. Troppo materiale.
Adesso
che mi sento come uno di quegli scarti, provo una serenità diversa,
una serenità per la prima volta vera e profonda. Sprigiona adesso
che il corpo ha perso un poco del suo spessore.
La
leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla zavorra
terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato. Immersa
nell’attimo presente, come prima mai era accaduto, faccio
finalmente parte del giardino, di quel mondo fluttuante di
trasformazioni continue.
I
haven't told my garden yet -
Lest
that should conquer me.
I
haven't quite the strength now
To
break it to the Bee -
I
will not name it in the street
For
shops would stare at me -
That
one so shy - so ignorant
Should
have the face to die.
The
hillsides must not know it -
Where
I have rambled so -
Nor
tell the loving forest
The
day that I shall go -
Nor
lisp it at the table -
Nor
heedless by the way
Hint
that within the Riddle
One
will walk today -
Emily
Dickinson
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