Provo
un’intensa, ma non retriva, nostalgia per il tempo in cui c’erano
i comunisti. Mi manca tutto, di quel tempo. Non posso fermare il
tempo, ma il tempo può fermare me – e lo fa, mi ferma. Il
desiderio di stare in un tempo abitabile, per quanto feroce, che mi
viene tolto di sfoglia in sfoglia, come accade a tutti, crea in me
uno sconcerto penoso, che è paragonabile a quello sconvolgimento con
cui una civiltà orrenda accoglie il ragazzo cresciuto dai lupi in
una foresta, comminandogli un’educazione e urbanizzandolo, cioè
inserendolo in un contesto che non comprende e in cui non si inserirà
mai. Così vivo io oggi. Nulla mi può tuttavia smuovere dalla
stabile certezza che ovunque io sia, davvero, sono: questo è il
rifugio e questo l’assalto al tempo, che è sempre devastato e
vile, mentre il fatto che sono, anche quando non esisto, non è né
devastato né vile, intuisco che è glorioso, so che è stabile e è
ovunque sempre. Mentre salutavo il nuovo tempo tacciandolo di
caratteristiche infami e reagendo con l’astio, poiché dell’amore
non sapevo nulla, ora non sono in grado di enunciare alcun benvenuto,
se non nel momento metafisico, che ora mi dà pena alla parola, il
che, come sempre, è un dato per nulla permanente. Sono le certezze
solide ad appartenerci, poiché a esse apparteniamo: ci trascinano,
ci scuotono, ci percuotono nell’ovunque sempre: ne siamo
trasportati. A un tempo che mi disarciona dalla possibilità di
appoggiarmi continuativamente a un testo, che sia da scrivere o meno,
è possibile per me sperimentare cosa significhi spogliarmi – non
dico restare nudo, perché non ne sono capace ancora, tuttavia
esfoliarmi sì: è questa la sensazione. E’ dolorosa come se un
parto coincidesse con il premorte. Il fatto di riuscire molto
lucidamente a valutare gli altri e il mondo che mi circonda, ovvero
di avvicinarmi quanto più possibile al momento presente, poiché non
esiste altro momento se non il presente, mette in luce che la
nostalgia di un tempo comunista fornisce soltanto l’occasione per
levarsi di dosso un ulteriore strato epidermico. Questa finzione per
cui la pelle si pensa suddividere interno ed esterno mi è
insopportabile, la avverto innaturale. Tale avvertimento è l’inizio
di qualunque cura. E’ solo vivendo a fondo, quanto si può cioè
vivere e non quanto si dovrebbe farlo, ed è solo apprendendo cosa
significhi “il fondo”, che l’uomo si cura, si prende cura di se
stesso, magari scalmanandosi, magari tacendo, magari scrivendo,
parlando, facendo la nanna. Che “è che è” resta una suprema
verità, cioè il fondamentale del vivibile in ogni forma, compresa
la mia, la nostra, ed è alla mano, è davvero vivibile. Spesso il
suo inizio è il perturbante. Spesso la sua amarezza è la clownerie
che si vive. Con odio o senza odio, con amore o senza amore (chi di
noi ha davvero conosciuto cosa è amore?), con rabbia e livore o
esercitando la pietà fino ai suoi insondabili residui, noi
procediamo mentre siamo proceduti e la grande paura è il maestro che
ci accompagna. Pare che la specie umana abbia scelto il dolore come
mezzo di conoscenza e sviluppo, di avanzamento verso se stessa, verso
il residuo insondabile, verso l’insondabilità. Ciò per dire,
anche, che quell’uomo che non ho mai apprezzato, era ed è
apprezzabile, dico Dario Fo, cioè la mia infanzia, la rabbia della
mia giovinezza…
Giuseppe
Genna,
(Posted
in Senza categoria and tagged Dario Fo, Mistero buffo, on 13 ottobre
2016)
Nessun commento:
Posta un commento