giovedì 28 febbraio 2013
mercoledì 27 febbraio 2013
Una storia
Però posso raccontarvi un'ultima
storia, prima di lasciarvi, e sono sicuro che questa non vi deluderà, e magari
vi farà anche ridere. Si tratta di una storia molto vecchia, che in tanti hanno
raccontato in tanti modi diversi, anche se sotto sotto è rimasta sempre uguale:
solo che voi siete piccoli, e molto probabilmente non la conoscete ancora. E'
la storia di un uomo infelice, che aveva una vite d'oro nell'ombelico e non
riusciva a liberarsene. Era andato da dottori, meccanici, carrozzieri,
chirurghi, orafi, ferramenta e fattucchiere, in tutto il mondo, nella speranza
che qualcuno di loro riuscisse a togliere quella vite: nulla, nessuno era mai
riuscito anche solo a smuoverla di un millimetro. Ma l'uomo non si era arreso,
e aveva continuato a girare il mondo, ostinato, alla ricerca di qualcuno che
riuscisse a togliergli quella vite d'oro dall'ombelico. Finché, un giorno, si recò
dall'Imperatore del Giappone - che, come spesso accade in quel saggio paese,
era un bambino. L'uomo gli mostrò la vite e, a gesti, poiché non sapeva una
parola di giapponese, gli fece capire qual era il suo problema.
L'Imperatore-bambino guardò la vite, sorrise, poi si girò lentamente e si mise
a frugare in una grande scatola d'avorio che teneva nascosta dietro al trono,
finché ne cavò un minuscolo cacciavite d'oro, talmente piccolo che sembrava uno
spillo.
Lo mostrò all'uomo e, sempre
sorridendo, pronunciò nella sua lingua una frase incomprensibile, dal suono
però meraviglioso, come una manciata di campanelle d'argento lasciate cadere su
un cuscino di piume. L'uomo, che non aveva capito nulla, annuì, e l'Imperatore
allora estrasse dalla sua scatola un drappo di seta viola e lo stese sul
pavimento, con molta cura. Quando ebbe eliminato anche la più piccola piega vi
fece inginocchiare l'uomo, vi si inginocchiò a sua volta e si mise al lavoro.
Pareva veramente impossibile che un
cacciavite così microscopico potesse svitare una vite così grossa, ma la vite
cominciò a girare senza fatica, e, girando, a uscire dall'ombelico: un giro,
due giri, tre giri, la vite uscì sempre di più, finché fu completamente fuori,
e l'Imperatore-bambino la mostrò all'uomo tenendola tra le dita. L'uomo allora
si guardò la pancia e sbalordì: per la prima volta la vide normale, liscia e
senza viti come quella di tutti gli altri. Era libero: la sua tenacia era stata
premiata, la maledizione che lo aveva accompagnato per tutta la vita era
finita. Balzò in piedi, pazzo di felicità, e gli cadde il culo per terra.
(Sandro Veronesi, da
La forza del passato)
lunedì 25 febbraio 2013
Alla mia nazione
Alla mia nazione
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, 1961
Razza in estinzione
La decadenza che
subiamo è uno scivolo che va giù piano piano/ È una nuova esperienza che ti toglie qualsiasi
entusiasmo/e alla lunga modifica
il tuo metabolismo.
Siamo lì fermi malgrado la grave emergenza/ come uomini al minimo
storico di coscienza.
E pensare che basterebbe
pochissimo.
Basterebbe spostare a stacco la nostra angolazione visiva. Guardare le cose come fosse la prima volta. Lasciare fuori campo tutto il conformismo di cui è permeata la nostra esistenza. Dubitare delle risposte già pronte. Dubitare dei nostri pensieri fermi, sicuri, inamovibili. Dubitare delle nostre convinzioni presuntuose e saccenti. Basterebbe smettere di sentirsi sempre delle brave persone. Smettere di sentirsi vittime delle madri, dei padri, dei figli. Smascherare, smascherare tutto: smascherare l’ amore, il riso, il pianto, il cuore, il cervello. Smascherare la nostra falsa coscienza individuale.
Basterebbe spostare a stacco la nostra angolazione visiva. Guardare le cose come fosse la prima volta. Lasciare fuori campo tutto il conformismo di cui è permeata la nostra esistenza. Dubitare delle risposte già pronte. Dubitare dei nostri pensieri fermi, sicuri, inamovibili. Dubitare delle nostre convinzioni presuntuose e saccenti. Basterebbe smettere di sentirsi sempre delle brave persone. Smettere di sentirsi vittime delle madri, dei padri, dei figli. Smascherare, smascherare tutto: smascherare l’ amore, il riso, il pianto, il cuore, il cervello. Smascherare la nostra falsa coscienza individuale.
Subito. Qui e ora.
Sì, basterebbe pochissimo.
Non è poi così difficile. Basterebbe smettere di piagnucolare, criticare, fare il tifo e leggere i giornali.
Essere certi solo di ciò che noi viviamo direttamente. Rendersi conto che anche l’ uomo più mediocre può diventare geniale se guarda il mondo con i suoi occhi. Basterebbe smascherare qualsiasi falsa partecipazione. Smettere di credere che l’ unico obiettivo sia il miglioramento delle nostre condizioni economiche perché la vera posta in gioco... è la nostra vita.
Basterebbe smettere di sentirsi vittime del denaro, del lavoro, del destino e persino del potere, perché anche i cattivi governi sono la conseguenza naturale della stupidità degli uomini. Basterebbe rifiutare, rifiutare la libertà di calpestare gli altri, ma anche la finta uguaglianza. Smascherare la nostra bontà isterica. Smascherare la nostra falsa coscienza sociale.
Non è poi così difficile. Basterebbe smettere di piagnucolare, criticare, fare il tifo e leggere i giornali.
Essere certi solo di ciò che noi viviamo direttamente. Rendersi conto che anche l’ uomo più mediocre può diventare geniale se guarda il mondo con i suoi occhi. Basterebbe smascherare qualsiasi falsa partecipazione. Smettere di credere che l’ unico obiettivo sia il miglioramento delle nostre condizioni economiche perché la vera posta in gioco... è la nostra vita.
Basterebbe smettere di sentirsi vittime del denaro, del lavoro, del destino e persino del potere, perché anche i cattivi governi sono la conseguenza naturale della stupidità degli uomini. Basterebbe rifiutare, rifiutare la libertà di calpestare gli altri, ma anche la finta uguaglianza. Smascherare la nostra bontà isterica. Smascherare la nostra falsa coscienza sociale.
Subito. Qui e ora.
Basterebbe pochissimo.
Basterebbe capire che un uomo non può essere veramente vitale se non si sente
parte di qualcosa. Basterebbe abbandonare il nostro smisurato bisogno di
affermazione, abbandonare anche il nostro appassionato pessimismo e trovare
finalmente l’ audacia di frequentare il futuro con gioia.
Perché la spinta
utopistica non è mai accorata o piangente. La spinta utopistica non ha memoria
e non si cura di dolorose attese.
La spinta utopistica è
subito. Qui e ora.
(Giorgio Gaber, Una nuova coscienza, da Un’idiozia
conquistata a fatica)
venerdì 22 febbraio 2013
Gli onori di casa
Una tipica idealizzazione,
che dovrebbe essere annoverata tra le patologie, e chiamarsi sindrome del
viaggiatore. Improvvisamente arrivi in un posto e ti sembra che lì vivresti in
perfetta calma e felicità. Ma non è vero. Nel bagaglio di ciascuno di noi c’è
sempre un carico completo di manie, traumi, frustrazioni e complessi
insuperabili, che in breve tempo, anche se ci trovassimo nel paradiso
terrestre, quello della Genesi, si estenderebbe fino a riempire tutto lo spazio
disponibile e a trasformarlo in un posto insopportabile come quello che abbiamo
lasciato poche ore prima.
Avevo detto esattamente
quello che si aspettava da me, per questo le mie parole erano state accolte con
tanto entusiasmo. È sempre così. L’ amore e la stima che gli altri ti
dimostrano dipende dalla distanza tra ciò che fai e ciò che gli altri si
aspettano da te. Non deve essere mai troppo grande. Brindai con il mio collega
alle donne forti, agli uomini onesti, agli animali liberi, ai bambini felici, a
tutte le utopie che solo di tanto in tanto, e per istanti fugaci, diventano
realtà.
mercoledì 20 febbraio 2013
martedì 19 febbraio 2013
Essere governato
Essere governato significa
essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato,
regolamentato, recintato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato,
valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo,
né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, ad ogni azione,
ad ogni transazione, ad ogni movimento, annotato, registrato, censito,
tariffato, timbrato, squadrato, postillato, ammonito, quotato, collettato,
patentato, licenziato, autorizzato, impedito, riformato, raddrizzato, corretto.
Vuol dire essere tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato,
concusso, spremuto, mistificato, derubato, e, alla minima resistenza, alla
prima parola di lamento, represso, emendato, vilipeso, vessato, braccato,
tartassato, accoppato, disarmato, ammanettato, imprigionato, fucilato,
mitragliato, giudicato, condannato, deportato, sacrificato, venduto, tradito, e
per giunta schernito, dileggiato, ingiuriato, disonorato, tutto con il pretesto
della pubblica utilità e in nome dell'interesse generale.
(Pierre-Joseph Proudhon da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, 1851)
lunedì 18 febbraio 2013
Madri
Sulle panchine, aggruppate in
fitti conversari, le madri: la loro vocazione a completarsi l’una nell’altra ti
turba, tu che associ l’idea di madre a quella di unicità, e che non sai
concepire benevolenza che non sia interna ai confini domestici. A ognuno la sua
sola e fatal genitrice: e invece in quei giardini scopri perplesso che possono
presentarsi anche in tal forma, le madri, come sociabili insetti. Sovente ti
interessano più delle loro creature, così le bordeggi con la tua bicicletta per
spiarle da presso. Lavorano a maglia, leggono una rivista dal salgariano nome
di "Rakam", tengono, orrore, tengono i calcagni fuori delle scarpe,
richiamano un bambino per sfilargli un golfetto. Il loro scalcagnato
chiacchiericcio ti nausea, però devi ammettere che senza quella presenza i
giardinetti sarebbero un luogo selvaggio: ingrumate l’una con l’altra come
anelli di lombrico, le mamme rappresentano una rassicurante garanzia d’ordine e
di legalità: davanti a loro nessun manipolo di violenti oserebbe farti cadere
dalla bicicletta per saltare a piedi uniti sui raggi delle tue povere ruote
irreparabilmente deformandoli, nessun ladro ti sviterebbe via il coperchio del
tuo campanello mentre i complici ti tengono fermo, nessun pazzo ti sbrofferebbe
addosso l’acqua a ciò ingurgitata dalla fontanella e a ciò trattenuta con
intollerabile gargarismo nelle guane rigonfie esplosive… E tuttavia proprio per
questa santa tutela le vorresti più austere, quelle mamme, più solennemente
comprese della propria sacralità; le vorresti tremende come le Antiche Madri...
Michele Mari, Tu, sanguinosa infanzia, Einaudi
domenica 17 febbraio 2013
Giornata Nazionale del Gatto
Il 17 febbraio è la Giornata Nazionale
del Gatto
Gattino (maschio, nero, 3 anni)
Stella (femmina, tigrata, 2 anni)
giovedì 14 febbraio 2013
Anniversari
Tim Buckley, 14 febbraio
1947 / 29 giugno 1975
“Tim Buckley fu
per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano
e John Coltrane per il
sassofono”
(Lee Underwood, uno dei
suoi collaboratori)
And he walked away from my fleeting house...
domenica 10 febbraio 2013
Le vent nous portera
Chiese
a Marco Kublai:– Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso
quali di questi futuri ci spingono i venti propizi.
- Per questi
porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la
data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre
nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di
luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano
nel viavai, per pensare che partendo di lí metterò assieme
pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti
mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che
uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la
città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e
nel tempo, ora piú rada ora piú densa, tu non devi credere
che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi
parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero;
puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.
Già
il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte della città che
minacciano negli incubi e nelle maledizioni:
Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Dice:
– Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale,
ed è là in fondo che, in una spirale sempre piú stretta, ci risucchia la
corrente.
E
Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello
che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo piú. Il
secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e
saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo
durare, e dargli spazio.
(Calvino, Le città invisibili)
sabato 9 febbraio 2013
Bobo / Berto
Dietro Bobo mi nascondo,
ma mi porto dentro Berto, zio di mio padre, fratello di mio nonno, del quale
porto il nome che io, secondogenito, ho avuto per tradizione. Emiliano
contadino, scapolo, mezzo scemo del villaggio, uomo mite e buono, sgonfiatore di
damigiane, sempre in mezzo a risse e puttane, ma una era la sua morosa
preferita, la Caterina,
una donna tonda e ubriacona che lui dal paese, gonfio di vino, caricava sulle
spalle per portarla nella stalla, e quando nel tragitto lei gli diceva “Berto
ho da pisciare!” lui neanche si fermava e così le rispondeva “Piscia pure,
basta che non caghi”. E così con questa precisazione lei gli lasciava sulla
giacca il suo odore e il suo calore come un vino, che dal consumatore ritorna
al produttore, come una gatta a segnare il suo territorio animale. Mio nonno
Giuseppe, suo fratello, era tornato dall’America, dove era andato a far fortuna
dieci anni giù in miniera (per morire un anno dopo il suo ritorno, di silicosi
come premio) per comprare un po’ di terra ed un mulino e non aver bisogno di
nessuno, specie della tessera del fascio per dover mangiare, perché il mulino
da mangiar ne dava. L’Emilia nell’Appennino è terra dura, in salita, piena di
sassi e forgiava uomini rozzi e grossi, e poi con la guerra fu ancora più dura perché
lì passava la cosiddetta Linea gotica. I tedeschi in ritirata come bestie
impazzite rastrellavano e ammazzavano famiglie intere, tra cui parte della mia.
E così toccò anche a zio Berto, che col mitra puntato obbligarono a caricar sacchi e roba sui loro mezzi, lui mentre caricava con la rabbia, forse nascondendo la paura, così mugugnava e bestemmiava…: “Dio porc di un Dio boia! Catvengn un cànker in bocca, boia d’un Dio lader…” Non finì il calvario, prima lo fucilarono.
E così toccò anche a zio Berto, che col mitra puntato obbligarono a caricar sacchi e roba sui loro mezzi, lui mentre caricava con la rabbia, forse nascondendo la paura, così mugugnava e bestemmiava…: “Dio porc di un Dio boia! Catvengn un cànker in bocca, boia d’un Dio lader…” Non finì il calvario, prima lo fucilarono.
E così lo voglio ricordare come uno che bestemmiava, perché la vita era troppo ingiusta e dura e che forse quel giorno s’era alzato pure male e non aveva voglia di arrivare a sera. Quasi indifferente persino agli assassini, così, magari a non voler dar loro soddisfazione, chissà, a volerli ringraziare di liberarlo da una vita di letame e mosche e zappar nel sole, contro un Dio a cui neanche credeva ma che l’aveva messo lì.
E se Dio c’è, certo lo perdona, e magari gli chiede pure scusa.
E così dietro Bobo mi nascondo, ma dentro porto Berto. E quando mi dicono di stare coi più forti e i loro culi dover leccare, e sedermi alle loro cerimonie di vuote parole, io vedo facce che bramano potere, vedo le stesse, quelle che dan l’ordine di sparare. E allora sento in me una voce che dice “a me ciam Bert! Bert Rundell” e comincio a bestemmiare! “Dio porc di un Dio boia! Catvengn un cànker in bocca, boia d’un Dio lader…!!!”
venerdì 8 febbraio 2013
martedì 5 febbraio 2013
lunedì 4 febbraio 2013
Tashiro-jima & Fukuoka, Japan
Tashiro-jima probabilmente è l’unico posto al mondo
dove ci sono più felini che persone. Meglio conosciuta come “l’isola dei gatti”,
questo lembo di terra conta circa 100 residenti (in maggioranza anziani) e centinaia,
centinaia di gatti. I pescatori sono
convinti, infatti, che nutrire i gatti porti loro fortuna e salute, una
credenza che continua ancora oggi. Oggi
nell’isola si contano almeno 10 santuari, oltre a 51 statue raffiguranti
mici e molti edifici a forma di gatto, con tanto di “orecchie”. I felini, dal
canto loro, sono talmente abituati al contatto con gli uomini, che seguono
sempre i turisti, accompagnandoli mentre visitano l’isola.
Fukuoka è una città che si trova nell'isola di Kyushu; qui una
colonia di gatti vive in simbiosi con la popolazione locale, accettata, nutrita
e coccolata, tanto da essere stata ribattezzata l’isola dei gatti. I pescatori
locali danno loro da mangiare e i mici sono liberi di vagare sull'isola, per le
strade, i cantieri, i portici e le case.
Lettera
Querida Bats,
non è solo coraggio, bisogna
avere radici come sabbia del deserto mossa dal vento dell’imperscrutabile, e
un’anima colma a tal punto di una disperazione tale da rendere automatica la
simbiosi coi disperati del mondo, l’unica patria a cui mi sono sentito
veramente di appartenere.
Ma non è necessario accendersi
la pipa con calma, e andare a sedersi dinnanzi ai carri armati israeliani, per
esprimere il coraggio dei propri valori. Non è necessario essere pronti a
sacrificare se stessi, subito, adesso, l’intera propria vita per considerarsi
coerenti coi propri proponimenti.
C’è tutto un microcosmo di
sofferenza nelle nostre città così ben imbellettate, un micro che in realtà è
macroscopica ingiustizia.
Quegli stessi uomini-tonno,
quando riescono a sbarcare e a disperdersi sulla terraferma, rimangono pur
sempre pesci fuor d’acqua. E poco dopo magari li si ritrova agli angoli delle
strade, a vendere la loro paccottiglia e i cd pirata per sopravvivere, per non
venire a patti con criminalità e spaccio, come i miei amici senegalesi,
venditori ambulanti con due lauree alle spalle conseguite nella migliore
università di Dakar.
Richiedono dignità, non
carità.
E magari amicizia.
C’è tutta una subcultura
dominante e omologante, (una vera peste bubbonica, ci vorrebbe, per svuotare
tutta questa umanità disumanizzante) di razzismi, edonismo, individualismo
esasperato al punto da considerare zerbini le lecite richieste di diritti civili,
a tal punto consolidato da abituarci alla prevaricazione sociale.
A questi carri armati di
bigottismo e perbenismo fascista, bisognerebbe saper rispondere giorno per
giorno.
Non bisogna lasciar passare
niente.
Che sia un risolino di scherno
bisbigliato su di un mezzo pubblico, che cela dietro denti ben curati la carie
delle svastiche, una usurpazione fatta sul posto di lavoro di cui siamo
testimoni, una violenza verbale ai danni di un miserabile per strada.
Ribellarsi, non retrocedere di
un passo, ora sì con coraggio, osare, anche a costo di apparire pazzi,
maniacali e utopici, vecchi tromboni già a trent’ anni, a costo di pagarne le
conseguenze da soli.
Semplici comportamenti,
coerenti con se stessi, possono essere rivoluzionari, “cambiare se stessi e per
osmosi cambierà anche il mondo!”, mi ripete ancora adesso da compianto, Tiziano
Terzani.
Consumare meno, è la prima
forma di ribellione a quel meccanismo di moderno fascismo che ci vuole
ingranaggi dediti al consumo di beni per lo più futili (caxxo, a me è due
settimane che mi hanno tagliato il gas, vabbe io sono patologico, ora cucino
col vapore).
Cercare la propria presunzione
di guerrilla personale, di rivoluzione, che sia il volontariato un mese
all’anno in Africa, o un giorno alla settimana all’ospedale dietro casa, o
visitando l’anziana in attesa della morte, l’extracomunitario gettato sul
marciapiede. Che ripeto innanzitutto ha bisogno di un sorriso, prima
dell’acquisto della sua paccottiglia.
Invece sono stanco Bats,
tremendamente esausto.
Di scorgere dalla visuale del
mio angolo di mondo fantomatici personaggi che si dicono di sinistra, e
spendono tante belle parole sui loro blog, e poi li ritrovi negli stessi posti
fighetti frequentati dai primi fans berlusconiani, e non possono fare a meno di
bere cocacola perché è buona, anche se sanno benissimo che in Colombia la Coca Cola Company fa
sterminio di sindacalisti, e in India prosciuga di acqua potabile interi
villaggi. Che ad agosto vanno una settimana a stendersi su spiagge esotiche,
dove sono serviti e riveriti come sovrani (forse per compensare la loro vita
occidentale di servi) da schiavi locali, ben consci che oltre il recinto
sorvegliato del villaggio turistico o dell’albergo di lusso la gente vive con
meno di due euri al giorno, uno tsunami magari ha fatto strage d’innocenti, una
guerra impazza (Sharm el Sheik, ragazzi l’Egitto confina con Gaza) e poi magari
si sorprende se qualcuno gli lascia sotto l’ombrellone oltre l’asciugami
stirato e un rinfresco, una bella bomba travestita da vendetta.
Che Terzani l’hanno letto ma
in pratica sono più emuli dell’ Oriana. Che alle manifestazioni per la pace ci
vanno perché è di tendenza, e insomma, a qualche gruppo bisogna pure
appartenere.
Che la loro indignazione dura giusto il tempo di 5 righe in un post, poi via si cambia argomento.
Che insomma la coerenza fra il dire e il fare è totalmente priva di sostanza.
Perché è faticoso, e poco conveniente.
Che la loro indignazione dura giusto il tempo di 5 righe in un post, poi via si cambia argomento.
Che insomma la coerenza fra il dire e il fare è totalmente priva di sostanza.
Perché è faticoso, e poco conveniente.
Che è così vigliacco da non
prendere posizione coi fatti su quegli ideali di cui si fa ventaglio, anche a
rischio di perdere il 90% degli amici, e ritrovarsi poi solo, a sbuffare fumo
da questa mia pipa affacciato sul davanzale di un minilocale al quarto piano di
una città che è in realtà è un deserto e sotto non si scorge quasi più nulla di
umano.
ton Vik.
Lettera di Vittorio Arrigoni
ad un’amica di Berlino
Vittorio Arrigoni (Besana
in Brianza, 4 febbraio 1975 – Gaza, 15 aprile 2011)
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