Sulle panchine, aggruppate in
fitti conversari, le madri: la loro vocazione a completarsi l’una nell’altra ti
turba, tu che associ l’idea di madre a quella di unicità, e che non sai
concepire benevolenza che non sia interna ai confini domestici. A ognuno la sua
sola e fatal genitrice: e invece in quei giardini scopri perplesso che possono
presentarsi anche in tal forma, le madri, come sociabili insetti. Sovente ti
interessano più delle loro creature, così le bordeggi con la tua bicicletta per
spiarle da presso. Lavorano a maglia, leggono una rivista dal salgariano nome
di "Rakam", tengono, orrore, tengono i calcagni fuori delle scarpe,
richiamano un bambino per sfilargli un golfetto. Il loro scalcagnato
chiacchiericcio ti nausea, però devi ammettere che senza quella presenza i
giardinetti sarebbero un luogo selvaggio: ingrumate l’una con l’altra come
anelli di lombrico, le mamme rappresentano una rassicurante garanzia d’ordine e
di legalità: davanti a loro nessun manipolo di violenti oserebbe farti cadere
dalla bicicletta per saltare a piedi uniti sui raggi delle tue povere ruote
irreparabilmente deformandoli, nessun ladro ti sviterebbe via il coperchio del
tuo campanello mentre i complici ti tengono fermo, nessun pazzo ti sbrofferebbe
addosso l’acqua a ciò ingurgitata dalla fontanella e a ciò trattenuta con
intollerabile gargarismo nelle guane rigonfie esplosive… E tuttavia proprio per
questa santa tutela le vorresti più austere, quelle mamme, più solennemente
comprese della propria sacralità; le vorresti tremende come le Antiche Madri...
Michele Mari, Tu, sanguinosa infanzia, Einaudi
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