Chiese
a Marco Kublai:– Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso
quali di questi futuri ci spingono i venti propizi.
- Per questi
porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la
data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre
nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di
luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano
nel viavai, per pensare che partendo di lí metterò assieme
pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti
mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che
uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la
città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e
nel tempo, ora piú rada ora piú densa, tu non devi credere
che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi
parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero;
puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.
Già
il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte della città che
minacciano negli incubi e nelle maledizioni:
Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Dice:
– Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale,
ed è là in fondo che, in una spirale sempre piú stretta, ci risucchia la
corrente.
E
Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello
che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo piú. Il
secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e
saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo
durare, e dargli spazio.
(Calvino, Le città invisibili)
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