Per quanto non venisse mai teorizzata
una separazione, l’idea che esistessero gli italiani del Nord e gli italiani
del Sud era diffusa e condivisa fin già dagli anni Ottanta del Novecento, prima
ancora dell’esplosione leghista, e nel tempo sarebbe diventata argomento di
dibattito e di contrasto politico, di presunzioni e di retoriche identitarie.
Sentirsi italiani non era facile, ma diventava una sorta di rivendicazione
contro i separatismi leghisti e anche contro le ridondanti esibizioni di
appartenenze localistiche. Un terreno scomodo, di confine, ma l’unico
percorribile e l’unico ragionevole, a condizione di poter decostruire quelle
retoriche e di guardare dentro alle ambiguità delle identità e, insieme alle
bellezze, di appartenere a un luogo, di avere, come diceva Ernesto de Martino,
una patria di riferimento. Dirsi o sentirsi o pensarsi di questo luogo e
insieme dell’Italia non è operazione semplice e definitiva. E diventa sempre
piú complicato nel momento in cui Nord e Sud, quasi come destra e sinistra,
perdono gli antichi significati, e vanno collocati in un mondo piú vasto,
globale, completamente nuovo rispetto al passato e ad ogni presente immaginato;
un nuovo che spesso non lascia spazio all’idea di futuro e inevitabilmente
porta a una sorta di restaurazione, di rimpianto, di rifiuto del passato. Sentirsi radicato
e sradicato, qui e altrove, partito e rimasto, è forse la condizione dolce e
dolorosa di chi capisce quanto sia diventato piú piccolo il mondo ed
enormemente piú grandi i suoi problemi. Forse allora bisogna ripartire da una
riflessione sulla possibilità e sulla necessità di sentirsi italiano, pure
sentendo l’appartenenza a un luogo e a un mondo. Può significare comprendere
che il riconoscimento profondo di un luogo può essere un possibile antidoto
alla fine del mondo. Chi ha conosciuto la fine del proprio mondo non è piú
disponibile ad accettare che finisca il Mondo. Questa riflessione incontra
sempre il problema delle immagini, la potenza degli stereotipi, il senso di noi
che è stato costruito nei secoli grazie anche a sguardi non sempre benevoli,
anzi ostili e miopi, parziali e deformanti. Ci si chiede se liberarsi dalla
«maledizione» di un’identità angusta, chiusa, inventata (come quella che oppone
Nord a Sud) può spingere a trasformare il conflitto in benedizione, il
risentimento in riconoscenza, l’autoassoluzione in consapevolezza dei propri
errori, l’ostilità nei confronti degli altri in comprensione. Questo mio
viaggio è, non a caso, mirato a smontare i luoghi comuni dei pregiudizi (anche
propri) che segnano il Sud e le immagini di un mondo complesso che spesso si
rovesciano se ricostruite attraverso uno sguardo storico, antropologico e
letterario.
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