Una
sera d’estate del 2030, nel giardino di un ospizio, due vecchi
incominciarono a ricordare.
Da
piccolo credevo che le albicocche secche fossero orecchie, e mi
domandavo a quali infelici fossero state tagliate. Quando fui
costretto ad assaggiarne una, prelevandola da una composizione
natalizia di datteri e frutta candita, mi dissi “Di questo dunque
sanno le orecchie”.
Io
invece credevo in una polvere magica che, disciolta nell’acqua e
bevuta, avrebbe preservato dai brutti sogni: e sempre fiducioso ne
bevvi. Dopo molt’ anni, chiesto a mia madre di mostrarmela, mi
sentii rispondere che, una volta vista nel suo stato naturale, la
polvere avrebbe perso il suo potere. Mai più ne dimandai.
Io
avevo un padre che nell’orbita si incastrava una sfera di ceramica
riproducente alla perfezione un bulbo oculare: presentandosi a me
simulava sgusciarsela via, quindi la riponeva nel taschino. Io
scappavo urlando: “L’occhio no! L’occhio no!”
Io
avevo un padre che con una piccola incisione riusciva a togliere la
buccia di un’arancia lasciandola intera: dopodiché la intagliava
in guisa di maschera mostruosa, e spente tutte le luci vi metteva
dentro un mozzicone di candela acceso. Osservando sgomento la
tremenda sembianza, sentivo una voce cavernosa che diceva: “Eccomi,
sono la Faccia, e sono venuto per te”.
Io
avevo un nonno che un giorno mi raccontò la storia di Enrico VIII
che ammazzava tutte le sue mogli. Io capii “di un ricottaro”, e
per molti anni, ogni volta che mangiavo della ricotta, aspettavo di
conoscere i sintomi dell’avvelenamento.
Anch’
io avevo un nonno, che una domenica mi portò a San Siro a vedere la
mia prima partita di calcio. Nell’intervallo mi spiegò che il
Milan non riusciva a segnare perché la Fiorentina aveva Robotti. Io
capii “i robot”, e guardai il secondo tempo cercando di cogliere
nei movimenti dei giocatori viola la meccanicità degli automi.
Tornando a casa mi sembrava già un miracolo che la partita fosse
finita zero a zero, noi contro l’indistruttibile acciaio!
Io,
quando oltrepassavo la boa, mi aspettavo di essere maciullato da un
pescecane. In questo modo mi sono avvelenato dieci anni di bagni,
fino al giorno in cui scopersi che bastava andare sott’ acqua e
dirgli “Ovunque tu sia, sappi che io sono un pesce come te”.
Io
invece, quando stavo sugli scogli, avevo il terrore che l’amo di un
pescatore distratto mi agganciasse un occhio, o la lingua, o un
orecchio, e me li strappasse via come esca pei pesci.
Io
avevo un padre che mi portava a vedere la chiesa di San Bernardino
alle Ossa, e l’edicola del Fopponino piena di teschi con una
scritta latina che tradotta diceva: “Non deriderci, o passante,
perché un giorno sarai come noi”. Io li guardavo a lungo e
pensavo: “No, non vi derido”.
Il
mio, invece, mi spedì da Palermo una cartolina della Cripta dei
Cappuccini, e da Torino la fotografia di una mummia del Museo Egizio.
Vedutele nella mia camera, la nonna esclamò: “Son cose da far
vedere a un bambino?”, e dentro di me io dissi: “Evidentemente
sì”.
Io,
una delle primissime volte in cui feci una telefonata, mi convinsi
che se dall’altra parte non rispondevano forse voleva dire che
erano morti. Da allora, per tutta la vita, non riesco ad arrivare al
terzo squillo senza pensare: “Deve essere successo qualcosa di
tremendo”.
Ed
io, quando da grandicello vidi L’esorcista, La cosa, La casa, Lo
squalo e Alien, non vidi nulla che non mi fosse familiare,
molto familiare da sempre.
Io
ero convinto che tutto il visibile – persone, automobili, rondini,
fili della luce, sputi per terra – fosse una rappresentazione
inscenata attorno a me allo scopo di studiare il mio comportamento.
Sentendomi osservato, mi davo contegno per non dare a vedere che mi
ero accorto di tutto: cavia consapevole, mi dicevo, cavia inutile,
dunque cavia da eliminare.
Io,
quando una persona mi sorrideva un po’ troppo affettuosamente,
sospettavo che non fosse vera: la Finta Madre, il Finto Cartolaio. E
insieme al terrore, mi prendeva anche pena per il destino degli
originali.
Io
una volta andai al cinema con i miei genitori a vedere Il Vampiro
di Dreyer. All’ ultimo momento, pensando che mi sarei
spaventato troppo, scelsero La nave bianca di
Rossellini. Io, che non mi ero reso conto del cambio, aspettai invano
per tutto il film l’apparizione del mostro. Per molti giorni non mi
diedi pace per non essere stato capace di riconoscerlo fra tutti quei
marinai.
Io
avevo un nonno che faceva centinaia di donnine nude di argilla. Per
le proporzioni del corpo si regolava sul canone di Policleto, ma
siccome aveva trascritto male una misura tutte le donne gli venivano
con le gambe troppo corte e il sedere basso. Guardando quei sederi
sospirava sconsolato, e se mio padre o mio zio gli suggerivano di
modellarli più in alto ribatteva: “Volete saperne più di
Policleto?”. Quel che ne capii io, era che Policleto doveva essere
stato un antico nemico del nonno.
Mio
padre, una volta in cui ero reticente su una certa questione, mi
disse: “Sappi che tutto quello che vivi io l’ho già vissuto
quando avevo la tua età, per cui non c’è nulla nella tua mente
che non mi sia noto”. Da quel giorno mi sentii così evidente ai
suoi occhi, che ogni commento o confessione diventavano inutili. Fu
così che la mia reticenza divenne assoluta.
E
io, una volta in cui non riuscivo a dormire, mi alzai dal letto e
andai di nascosto a origliare alla porta della stanza dove gli adulti
stavano chiacchierando. Udii pronunciare nomi che non conoscevo,
sentii nuovi toni di voce, capii che la mia vita e la loro erano cose
separate, e che di giorno ci si incontrava solo per caso.
Io,
alle scuole medie, andavo spesso nella biblioteca scolastica a
prendere a prestito dei libri. Un giorno il bibliotecario si sbagliò,
e invece della Scoperta di Troia di Heinrich Schliemann
mi diede un librino intitolato Verrà la morte e avrà i tuoi
occhi. Non esiste cifra al mondo che potrebbe mai risarcirmi di
quell’errore.
Io,
in campagna, avevo una balia che dormiva nella mia camera. Dopo un
po’ ch’eravamo al buio chiedevo: “Dirce, ci sei?”, e mi
sentivo rispondere: “No, non ci sono”. Perplesso, insistevo: “Ma
era la tua voce”, e lei, spietata e poetica insieme: “Non sono la
Dirce, sono una vocina lontana lontana che viene dal bosco…”. Ed
io, che sapevo e non sapevo, che credevo e non credevo, dovevo
affrontare la notte così, come una prova.
Mio
padre conosceva un elettricista che aveva perso un pollice nel
portellone di un aereo. Quando venne a pranzo da noi, accortosi dei
miei sforzi per non guardargli la mutilazione, mi mostrò la mano
integra con il pollice nascosto dietro le altre dita, poi lo fece
comparire di scatto. Non capiva che proprio in quel modo,
suggerendomi di poter fare lo stesso con l’altra mano, divenne
veramente per me un uomo mostruoso.
Io,
quando mia madre mi spiegò che “mostro”, per gli antichi, voleva
dire prodigio, e perfino miracolo, mi sentii per un attimo placato,
come se vivessi in un mondo migliore.
Il
libro fondamentale della mia educazione fu Pierino Porcospino,
e siccome mi succhiavo il pollice il mio incubo era il Sartore:
S’apre
la porta ed il sartore
entra
a gran salti pien di furore.
Col
forbicione, zig zag, recide
al
bimbo i pollici; il bimbo stride.
Anche
il mio libro era Pierino Porcospino, e pur essendo un mangione
soffrivo per il povero Gasparino, che morì di consunzione perché
continuava a dire “No, no, no, la minestra io non la vo’”, e
sulla tomba misero una zuppiera.
Adesso
però, prima di rientrare, raccontiamoci qualcosa di ameno.
Va
bene. Quando ero di buon umore, mio padre mi diceva: “Ciao porco”,
oppure: “Ciao porcello”, oppure: “Ciao porcottino”. Rimasto
solo mi dicevo: “Si, sono un porco”, e me la ridevo.
Io,
quando facevo merenda con il latte, mettevo nella scodella tanti
pezzi di pane fino a che il cucchiaio rimanesse in piedi da solo. Se
entrava in cucina, mio padre diceva: “Che bel paciaròt!”,
e me ne rubava un po’.
Non
c’è stato molt’ altro, nella vita.
No,
è quasi tutto laggiù.
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