giovedì 22 dicembre 2016

Laggiù





Una sera d’estate del 2030, nel giardino di un ospizio, due vecchi incominciarono a ricordare.

Da piccolo credevo che le albicocche secche fossero orecchie, e mi domandavo a quali infelici fossero state tagliate. Quando fui costretto ad assaggiarne una, prelevandola da una composizione natalizia di datteri e frutta candita, mi dissi “Di questo dunque sanno le orecchie”.

Io invece credevo in una polvere magica che, disciolta nell’acqua e bevuta, avrebbe preservato dai brutti sogni: e sempre fiducioso ne bevvi. Dopo molt’ anni, chiesto a mia madre di mostrarmela, mi sentii rispondere che, una volta vista nel suo stato naturale, la polvere avrebbe perso il suo potere. Mai più ne dimandai.

Io avevo un padre che nell’orbita si incastrava una sfera di ceramica riproducente alla perfezione un bulbo oculare: presentandosi a me simulava sgusciarsela via, quindi la riponeva nel taschino. Io scappavo urlando: “L’occhio no! L’occhio no!”

Io avevo un padre che con una piccola incisione riusciva a togliere la buccia di un’arancia lasciandola intera: dopodiché la intagliava in guisa di maschera mostruosa, e spente tutte le luci vi metteva dentro un mozzicone di candela acceso. Osservando sgomento la tremenda sembianza, sentivo una voce cavernosa che diceva: “Eccomi, sono la Faccia, e sono venuto per te”.

Io avevo un nonno che un giorno mi raccontò la storia di Enrico VIII che ammazzava tutte le sue mogli. Io capii “di un ricottaro”, e per molti anni, ogni volta che mangiavo della ricotta, aspettavo di conoscere i sintomi dell’avvelenamento.

Anch’ io avevo un nonno, che una domenica mi portò a San Siro a vedere la mia prima partita di calcio. Nell’intervallo mi spiegò che il Milan non riusciva a segnare perché la Fiorentina aveva Robotti. Io capii “i robot”, e guardai il secondo tempo cercando di cogliere nei movimenti dei giocatori viola la meccanicità degli automi. Tornando a casa mi sembrava già un miracolo che la partita fosse finita zero a zero, noi contro l’indistruttibile acciaio!

Io, quando oltrepassavo la boa, mi aspettavo di essere maciullato da un pescecane. In questo modo mi sono avvelenato dieci anni di bagni, fino al giorno in cui scopersi che bastava andare sott’ acqua e dirgli “Ovunque tu sia, sappi che io sono un pesce come te”.

Io invece, quando stavo sugli scogli, avevo il terrore che l’amo di un pescatore distratto mi agganciasse un occhio, o la lingua, o un orecchio, e me li strappasse via come esca pei pesci.

Io avevo un padre che mi portava a vedere la chiesa di San Bernardino alle Ossa, e l’edicola del Fopponino piena di teschi con una scritta latina che tradotta diceva: “Non deriderci, o passante, perché un giorno sarai come noi”. Io li guardavo a lungo e pensavo: “No, non vi derido”.

Il mio, invece, mi spedì da Palermo una cartolina della Cripta dei Cappuccini, e da Torino la fotografia di una mummia del Museo Egizio. Vedutele nella mia camera, la nonna esclamò: “Son cose da far vedere a un bambino?”, e dentro di me io dissi: “Evidentemente sì”.

Io, una delle primissime volte in cui feci una telefonata, mi convinsi che se dall’altra parte non rispondevano forse voleva dire che erano morti. Da allora, per tutta la vita, non riesco ad arrivare al terzo squillo senza pensare: “Deve essere successo qualcosa di tremendo”.

Ed io, quando da grandicello vidi L’esorcista, La cosa, La casa, Lo squalo e Alien, non vidi nulla che non mi fosse familiare, molto familiare da sempre.

Io ero convinto che tutto il visibile – persone, automobili, rondini, fili della luce, sputi per terra – fosse una rappresentazione inscenata attorno a me allo scopo di studiare il mio comportamento. Sentendomi osservato, mi davo contegno per non dare a vedere che mi ero accorto di tutto: cavia consapevole, mi dicevo, cavia inutile, dunque cavia da eliminare.

Io, quando una persona mi sorrideva un po’ troppo affettuosamente, sospettavo che non fosse vera: la Finta Madre, il Finto Cartolaio. E insieme al terrore, mi prendeva anche pena per il destino degli originali.

Io una volta andai al cinema con i miei genitori a vedere Il Vampiro di Dreyer. All’ ultimo momento, pensando che mi sarei spaventato troppo, scelsero La nave bianca di Rossellini. Io, che non mi ero reso conto del cambio, aspettai invano per tutto il film l’apparizione del mostro. Per molti giorni non mi diedi pace per non essere stato capace di riconoscerlo fra tutti quei marinai.

Io avevo un nonno che faceva centinaia di donnine nude di argilla. Per le proporzioni del corpo si regolava sul canone di Policleto, ma siccome aveva trascritto male una misura tutte le donne gli venivano con le gambe troppo corte e il sedere basso. Guardando quei sederi sospirava sconsolato, e se mio padre o mio zio gli suggerivano di modellarli più in alto ribatteva: “Volete saperne più di Policleto?”. Quel che ne capii io, era che Policleto doveva essere stato un antico nemico del nonno.

Mio padre, una volta in cui ero reticente su una certa questione, mi disse: “Sappi che tutto quello che vivi io l’ho già vissuto quando avevo la tua età, per cui non c’è nulla nella tua mente che non mi sia noto”. Da quel giorno mi sentii così evidente ai suoi occhi, che ogni commento o confessione diventavano inutili. Fu così che la mia reticenza divenne assoluta.

E io, una volta in cui non riuscivo a dormire, mi alzai dal letto e andai di nascosto a origliare alla porta della stanza dove gli adulti stavano chiacchierando. Udii pronunciare nomi che non conoscevo, sentii nuovi toni di voce, capii che la mia vita e la loro erano cose separate, e che di giorno ci si incontrava solo per caso.

Io, alle scuole medie, andavo spesso nella biblioteca scolastica a prendere a prestito dei libri. Un giorno il bibliotecario si sbagliò, e invece della Scoperta di Troia di Heinrich Schliemann mi diede un librino intitolato Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Non esiste cifra al mondo che potrebbe mai risarcirmi di quell’errore.

Io, in campagna, avevo una balia che dormiva nella mia camera. Dopo un po’ ch’eravamo al buio chiedevo: “Dirce, ci sei?”, e mi sentivo rispondere: “No, non ci sono”. Perplesso, insistevo: “Ma era la tua voce”, e lei, spietata e poetica insieme: “Non sono la Dirce, sono una vocina lontana lontana che viene dal bosco…”. Ed io, che sapevo e non sapevo, che credevo e non credevo, dovevo affrontare la notte così, come una prova.

Mio padre conosceva un elettricista che aveva perso un pollice nel portellone di un aereo. Quando venne a pranzo da noi, accortosi dei miei sforzi per non guardargli la mutilazione, mi mostrò la mano integra con il pollice nascosto dietro le altre dita, poi lo fece comparire di scatto. Non capiva che proprio in quel modo, suggerendomi di poter fare lo stesso con l’altra mano, divenne veramente per me un uomo mostruoso.

Io, quando mia madre mi spiegò che “mostro”, per gli antichi, voleva dire prodigio, e perfino miracolo, mi sentii per un attimo placato, come se vivessi in un mondo migliore.

Il libro fondamentale della mia educazione fu Pierino Porcospino, e siccome mi succhiavo il pollice il mio incubo era il Sartore:
S’apre la porta ed il sartore
entra a gran salti pien di furore.
Col forbicione, zig zag, recide
al bimbo i pollici; il bimbo stride.

Anche il mio libro era Pierino Porcospino, e pur essendo un mangione soffrivo per il povero Gasparino, che morì di consunzione perché continuava a dire “No, no, no, la minestra io non la vo’”, e sulla tomba misero una zuppiera.

Adesso però, prima di rientrare, raccontiamoci qualcosa di ameno.

Va bene. Quando ero di buon umore, mio padre mi diceva: “Ciao porco”, oppure: “Ciao porcello”, oppure: “Ciao porcottino”. Rimasto solo mi dicevo: “Si, sono un porco”, e me la ridevo.

Io, quando facevo merenda con il latte, mettevo nella scodella tanti pezzi di pane fino a che il cucchiaio rimanesse in piedi da solo. Se entrava in cucina, mio padre diceva: “Che bel paciaròt!”, e me ne rubava un po’.

Non c’è stato molt’ altro, nella vita.
No, è quasi tutto laggiù.









Nessun commento:

Posta un commento