Non tutti hanno la fortuna di morire sul colpo
Siccome
inizio ad avere un certo numero di anni, l’eventualità di un
improvviso e irreversibile spegnimento del mio corpo sta diventando
sempre più probabile, ma questo non è un problema, è da quando ero
piccolo che so che i corpi prima o poi si trasformano in poltiglie
rosa, soprattutto quelli di gatto quando attraversano la strada. Io
quando guardo le persone non vedo esseri viventi, vedo future
poltiglie rosa. Il problema non è nemmeno l’idea di essere morto,
cosa che invece trovo molto riposante: è un sollievo pensare che una
volta spento il corpo non ci sia più niente: niente obiettivi,
niente preoccupazioni, niente pruriti, niente di niente, neanche la
minaccia incombente di una sveglia alle sette. Quello che mi
preoccupa non è né il dover morire né l’essere morto, ma il
passaggio da una cosa all’altra, perché non tutti hanno la fortuna
di morire sul colpo e oggi è molto facile finire nelle mani di uno
di quegli aguzzini che la società ha incaricato di farti soffrire il
più a lungo possibile. Un tempo c’erano i boia, oggi ci sono i
medici.
Un
tempo ti prendevano e ti sventravano, ti squartavano, ti spellavano,
ti smembravano o, se eri fortunato, ti bruciavano. Se si scorre
l’elenco delle pene capitali della storia dell’umanità si nota
subito una cosa: l’incredibile fantasia umana. Quella dei boia non
era tortura, era body art. Oggi i gusti sono cambiati e non è più
considerata buona educazione spargere le interiora altrui in mezzo
alla strada, così l’aguzzino moderno non punta più alla qualità
dell’agonia ma alla quantità: ti prende, ti mette in un letto
d’ospedale e ti tiene lì il più possibile. Non c’è niente da
fare, alla gente piace troppo guardare la gente morire.
E
questo è precisamente il mio problema, già non sopporto mezz’ora
dal dentista, figuriamoci mesi in ospedale. Così ho iniziato a
pensare a una via d’uscita, qualche cosa che mi permetta di
svignarmela da questo pianeta prima che riescano a mettermi le mani
addosso, ma cosa? Impiccarmi? Impasticcarmi? Spararmi? Non è
semplice. Il corpo, qualsiasi cosa tu gli faccia, fa di tutto per
sopravvivere. A lui non importa niente di quello che tu vuoi o non
vuoi e nemmeno gli importa di quello che lo aspetta, se è lungo o
breve, piacevole o spiacevole, lui vuole solo continuare a vivere, a
tutti i costi, fosse anche solo per un minuto di agonia. Il risultato
è che è difficilissimo ammazzarlo. Se lo sventri continua a
respirare per ore, se gli dai 2000 Volt può resistere un quarto
d’ora, con l’acido cianidrico qualche minuto e persino se gli
spari non puoi essere sicuro di ammazzarlo, perché bisogna sperare
che il proiettile si conficchi nel punto giusto e anche in quel caso
il bastardo potrebbe sopravvivere lo stesso, col risultato di
spedirti dritto nelle mani di quelli da cui volevi scappare.
È
per questo che negli Stati Uniti c’è una complicata procedura da
seguire per assicurarsi che un condannato muoia senza soffrire. Prima
ci vuole la giusta dose di barbiturici per fargli perdere conoscenza,
poi qualcosa che gli paralizzi i muscoli volontari e infine un’altra
cosa per provocare l’arresto cardiaco. Questo, ad oggi, è il
metodo più rapido e indolore che si conosca per spegnere il corpo, e
con chi viene usato? Con gli assassini.
Di
solito, per far capire quanto sia crudele la pena di morte, si dice
che un condannato non sa di preciso quando morirà e che può dover
aspettare anche venti o trent’anni. Dunque, vediamo: “non sa
quando morirà” ce l’ho, “può aspettare anche venti o
trent’anni” ce l’ho. Cioè, in pratica, la differenza fra me e
un condannato a morte è che lui è circondato da persone che si
preoccupano di farlo morire nel modo più rapido e indolore
possibile, mentre io sono circondato da persone che vogliono farmi
agonizzare il più a lungo possibile. Mi stupisce che fuori da San
Quintino non ci sia la fila.
Pubblicato
da Smeriglia
|
28.11.16
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