martedì 4 aprile 2017

Napoli





Con Napoli, comunque, i conti non sono mai chiusi, anche a distanza. Sono vissuta non per breve tempo in altri luoghi, ma questa città non è un luogo qualsiasi, è un prolungamento del corpo, è una matrice della percezione, è il termine di paragone di ogni esperienza. Tutto ciò che per me è stato durevolmente significativo ha Napoli per scenario e suona nel suo dialetto. Questa enfasi però è recente ed è il frutto di rivisitazioni da lontano. La città in cui sono cresciuta l’ho vista a lungo come un posto in cui mi sentivo continuamente a rischio. Era una città di litigi improvvisi, di mazzate, di lacrime facili, di piccoli conflitti che finivano in bestemmie, oscenità irriferibili e fratture insanabili, di affetti così esibiti da diventare insopportabilmente falsi. La mia Napoli è la Napoli “volgare” di gente “sistemata” ma ancora terrorizzata dalla necessità di tornare a doversi buscare la giornata con lavoretti precari, pomposamente onesta, ma, nei fatti, pronta a piccole nefandezze, per non sfigurare, chiassosa, di voce alta, sbruffona, laurina, ma anche per certe ramificazioni, stalinista, affogata nel dialetto più angoloso, sboccata e sensuale, senza ancora il decoro piccolo-borghese ma con la pulsione a darsene almeno i segni superficiali, per bene e potenzialmente criminale, pronta a immolarsi all’occasione o alla necessità di non dimostrarsi più fesso degli altri.
Mi sono sentita diversa da questa Napoli, l’ho vissuta con repulsione, sono scappata via appena ho potuto, me la sono portata dietro come sintesi, un surrogato per tenere sempre a mente che la potenza della vita è lesa, umiliata da modalità ingiuste dell’esistenza. Da molto tempo, però, la guardo al microscopio. Isolo frammenti, ci scendo dentro, scopro cose buone che da ragazza non vedevo e altre che mi appaiono ancora più miserabili di allora. Ma neanche per queste provo più il vecchio astio. Alla fin fine è un’esperienza di città che non si cancella nemmeno volendo e che risulta utile dappertutto. Posso girare per strade e vicoli semplicemente standomene a letto a occhi chiusi; quando ci torno ho momenti iniziali di entusiasmo incontenibile; poi passo ad odiarla nel giro di un pomeriggio, regredisco, ritorno muta, avverto un senso di soffocamento, un malessere diffuso, mi pare di aver colto da ragazzina non una sua fase limitata nel tempo e nello spazio ma i segni di una degenerazione che ormai si è espansa, cosicché la città, coi suoi richiami di tempo perduto da ritrovare, o con le improvvise rammemorazioni, fa solo da sirena perversa, usa strade, vicoli, quella salita, quella discesa, la bellezza avvelenata del golfo, ma nei fatti resta un luogo di scomposizione, di disarticolazione, di perdita della testa che ho imparato a fatica a far funzionare un poco, fuori di lei. E tuttavia è la mia esperienza, vi custodisco molti affetti importanti, sento la ricchezza umana, gli strati complessi delle culture. Ho smesso di sottrarmela.

Elena Ferrante






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