martedì 27 febbraio 2018
domenica 25 febbraio 2018
sabato 24 febbraio 2018
Pensiero frammentario
A
proposito di probità le dirò una cosa. Quando uno comincia a
scrivere un saggio di quaranta pagine su qualsiasi argomento, parte
da alcune affermazioni preliminari e ne rimane prigioniero. Una certa
idea della probità lo obbliga ad andare fino in fondo rispettandole,
lo obbliga a non contraddirsi; tuttavia, a mano a mano che prosegue,
il testo gli prospetta altre tentazioni, che è costretto a
respingere, perché si allontanano dalla via prefissata. Siamo
rinchiusi in un cerchio che abbiamo tracciato noi stessi.
Ed è in
questo modo che, volendo essere probi, si cade nella falsità, nella
mancanza di veracità. Se questo succede in un saggio di quaranta
pagine, che cosa non accadrà in un sistema! Qui sta il dramma di
ogni riflessione strutturata: non permettere la contraddizione. E
così si cade nel falso, si mente a se stessi per salvaguardare la
coerenza. Se invece si compongono frammenti, è possibile dire nello
stesso giorno una cosa e il suo contrario. Perché? Perché ogni
frammento nasce da un’esperienza diversa, e perché queste
esperienze sono vere: sono l’essenziale. Si dirà che ciò
significa essere irresponsabili; ma in tal caso lo si sarà al modo
stesso in cui è irresponsabile la vita.
Un pensiero frammentario
riflette tutti gli aspetti della tua esperienza; un pensiero
sistematico ne riflette uno solo: l’aspetto controllato, e per ciò
stesso impoverito. In Nietzsche, in Dostoevskij si esprimono tutti i
tipi di umanità possibile, tutte le esperienze. Nel sistema parla
solo il controllore, il capo. Il sistema è sempre la voce del capo:
proprio per questo ogni sistema è totalitario, mentre il pensiero
frammentario rimane libero.
Emile Cioran, Intervista
con Fernando Savater
Uso dei termini
«Allora,
bisogna che qui al nord cominciate a imparare l’uso esatto dei
termini e delle locuzioni romane. Sticazzi si usa quando di una cosa
non te ne frega niente. Per esempio: Lo sai che Saint-Vincent ha
4.000 abitanti? Sticazzi, puoi dire. Cioè, chissenefrega. Come lo
usate voi, Italo, è sbagliato. Devi cercare un ago in un pagliaio?
Allora devi dire: mecojoni! Mecojoni indica stupore, lo usi per dire:
accidenti! Capisci la differenza Italo? Non puoi usare sticazzi per
esprimere meraviglia, sorpresa. Sticazzi lo usi per dire
chissenefrega. Ho vinto alla lotteria 40 milioni di euro? Mecojoni,
devi dire! Se dici sticazzi significa: non me ne frega niente. Ecco.
Ricominciamo. Deruta e D’Intino devono cercare tutti i trans di
Aosta e provincia. Tu che devi dire?».
«Mei cojoni?».
«Mecojoni» lo corresse.
«Mecojoni».
«Bravo Italo. Invece che a Courmayeur c’è la funivia?».
«Sticazzi».
«Perfetto. Hai appena imparato l’articolo sette della costituzione romana che recita: uno sticazzi al momento giusto risolve mille problemi.»
«Mei cojoni?».
«Mecojoni» lo corresse.
«Mecojoni».
«Bravo Italo. Invece che a Courmayeur c’è la funivia?».
«Sticazzi».
«Perfetto. Hai appena imparato l’articolo sette della costituzione romana che recita: uno sticazzi al momento giusto risolve mille problemi.»
mercoledì 21 febbraio 2018
We are looking away again
This
is eastern Ghouta, where hundreds are being killed and injured by
Assad’s forces. 'It's not a war. It's a massacre'.
Eastern
Ghouta is another Srebrenica, we are looking away again.
martedì 20 febbraio 2018
Nostalgia
Quando
ero bambino,
la nostalgia era un piccolo francobollo
Io stavo da questa parte
mia madre dall’altra
Quando sono cresciuto
la nostalgia è diventata un biglietto per il traghetto
Io stavo da questa parte
la mia sposa dall’altra
Poi
la nostalgia si è formata in un piccolo sepolcro
Io stavo fuori
mia madre dentro
E adesso
la nostalgia sembra grande per essere un canale
Io sto da questa parte
la mia terra dall’altra
la nostalgia era un piccolo francobollo
Io stavo da questa parte
mia madre dall’altra
Quando sono cresciuto
la nostalgia è diventata un biglietto per il traghetto
Io stavo da questa parte
la mia sposa dall’altra
Poi
la nostalgia si è formata in un piccolo sepolcro
Io stavo fuori
mia madre dentro
E adesso
la nostalgia sembra grande per essere un canale
Io sto da questa parte
la mia terra dall’altra
Yu Guangzhong, Nostalgia
lunedì 19 febbraio 2018
Mandala
James
Brunt creates artworks using natural objects he finds around his home
in Yorkshire, England. From rocks and twigs to leaves and even
berries, Brunt arranges the materials into spirals, concentric
circles, and other detailed patterns.
Fame
Un
giorno di agosto del 1968 nuvole nere e basse correvano nel cielo di
una piccola città della Nigeria orientale e ogni tanto pioveva. La
pioggia cadeva in fasci di gocce enormi che scioglievano la terra
rossa delle strade e diventavano torrenti diretti chissà dove. Poi
tornava il sole tra il verde della foresta, l’acqua raccolta
nell’incavo delle grandi foglie dei banani cessava di zampillare e
le ultime gocce si bilanciavano sulla punta di quelle foglie, poi
cadevano. In quel momento ricominciava il caldo, la terra rossa si
asciugava fumando e negri ridenti vestiti di pezzi di nylon rosa e
azzurri sorgevano da sotto i banani e parevano rincorrersi con i
piedi con la voce e con le mani.
Quella
piccola città era la capitale di un minuscolo Stato che si chiamava
Biafra e che ora non esiste più. Un certo colonnello Ojukwu, un
negro pazzo che aveva studiato in Inghilterra aveva fondato quello
Stato e un numero immenso di bambini e di vecchi fuggiti dalla
foresta a causa della guerra stavano chiusi dentro recinti e vecchie
scuole e morivano di fame anche se in città c’erano dei banchetti
che vendevano scatolette di cibo a borsa nera. Ma i bambini e i
vecchi fuggiti dalla foresta non lo sapevano e se lo sapevano non
avrebbero mai avuto i soldi per comperare anche una sola di quelle
scatolette. La propaganda del colonnello pazzo voleva che morissero
per commuovere il mondo e convincerlo a riconoscere il proprio Stato
e ci riuscì, a farli morire, a commuovere il mondo e a farsi
riconoscere da qualcuno. Lo Stato durò pochi mesi, la guerra finì e
i milioni di morti scomparvero.
In uno di quei recinti sotto il sole e sotto l’ombra delle nubi nere e le docce improvvise, un uomo, un europeo, guardava un bambino nudo. Il bambino non era più completamente nero di pelle, né scuro di capelli perché era diventato quasi roseo e rossiccio di capelli per mancanza di proteine e pareva come spellato. Inoltre era così magro che la pelle sul suo cranio era come seccata dal sole, c’erano molte grinze secche intorno agli occhi e non aveva né collo, né guance, né labbra. Le dita delle mani e dei piedi erano le piccole ossa delle falangi che si muovevano stranamente insieme alle altre ossa dello scheletro. Nell’incavo del bacino aveva una piccola borsa di pelle grinzosa e tutti i suoi movimenti erano molto lenti, ondulati e traballanti. Sorrideva, guardando l’uomo che lo guardava e sorrideva anche ai fotografi che lo fotografavano in massa come sorpreso e lusingato di tanta attenzione. Il suo sorriso era quello di un centenario, che però in quel momento aveva qualcosa da fare, cioè sorrideva con cortesia, ma senza abbandonare il lavoro che lo occupava.
L’uomo che lo guardava da molto tempo aveva visto il bambino raccogliere degli stecchi intorno alla baracca e osservò che per fare questo aveva impiegato più di due ore, prima con piccolissimi mucchi di stecchi intorno a dove si trovava e in seguito riunendoli in un solo mucchio. Poi aveva guardato l’uomo, l’uomo capì lo sguardo, cavò di tasca un accendino e accese gli stecchi che cominciarono subito a bruciare con un po’ di fumo. A questo punto il bambino smise di guardare l’uomo, frugò con le dita dentro la fessura di una baracca, tirò fuori un topo infilato in un grosso stecco e cominciò a farlo girare sul fuoco con molta lentezza e con tutte due le mani. Di tanto intanto alimentava il fuoco con altri stecchi infilandoli con abilità uno sotto l’altro senza far cadere quelli che già bruciavano e diventavano brace. Questo lavoro però lo stancava, allora abbandonava il topo sul fuoco e il topo dopo un po’ friggeva e si gonfiava. Al friggere del topo il bambino pareva svegliarsi e riprendeva in mano lo stecco che faceva girare tra le falangi che parevano molto lunghe, con unghie lunghe. Ma nel fare questo respirava sempre più affannosamente, la cassa toracica si muoveva come un soffietto e dopo pochi minuti il bambino lasciava cadere il topo nella brace. Quello che pareva richiedere al suo corpo una fatica minore era infilare altri stecchi nel fuoco.
Il bambino andò avanti immerso in questi esercizi per circa venti minuti, poi, come definitivamente stanco, ritirò il topo dal fuoco e lo lasciò cadere in disparte, si sdraiò e parve addormentarsi. Ma non dormiva, di tanto in tanto apriva i grossi occhi bianchi e neri molto lucenti e sorrideva all’uomo.
In uno di quei recinti sotto il sole e sotto l’ombra delle nubi nere e le docce improvvise, un uomo, un europeo, guardava un bambino nudo. Il bambino non era più completamente nero di pelle, né scuro di capelli perché era diventato quasi roseo e rossiccio di capelli per mancanza di proteine e pareva come spellato. Inoltre era così magro che la pelle sul suo cranio era come seccata dal sole, c’erano molte grinze secche intorno agli occhi e non aveva né collo, né guance, né labbra. Le dita delle mani e dei piedi erano le piccole ossa delle falangi che si muovevano stranamente insieme alle altre ossa dello scheletro. Nell’incavo del bacino aveva una piccola borsa di pelle grinzosa e tutti i suoi movimenti erano molto lenti, ondulati e traballanti. Sorrideva, guardando l’uomo che lo guardava e sorrideva anche ai fotografi che lo fotografavano in massa come sorpreso e lusingato di tanta attenzione. Il suo sorriso era quello di un centenario, che però in quel momento aveva qualcosa da fare, cioè sorrideva con cortesia, ma senza abbandonare il lavoro che lo occupava.
L’uomo che lo guardava da molto tempo aveva visto il bambino raccogliere degli stecchi intorno alla baracca e osservò che per fare questo aveva impiegato più di due ore, prima con piccolissimi mucchi di stecchi intorno a dove si trovava e in seguito riunendoli in un solo mucchio. Poi aveva guardato l’uomo, l’uomo capì lo sguardo, cavò di tasca un accendino e accese gli stecchi che cominciarono subito a bruciare con un po’ di fumo. A questo punto il bambino smise di guardare l’uomo, frugò con le dita dentro la fessura di una baracca, tirò fuori un topo infilato in un grosso stecco e cominciò a farlo girare sul fuoco con molta lentezza e con tutte due le mani. Di tanto intanto alimentava il fuoco con altri stecchi infilandoli con abilità uno sotto l’altro senza far cadere quelli che già bruciavano e diventavano brace. Questo lavoro però lo stancava, allora abbandonava il topo sul fuoco e il topo dopo un po’ friggeva e si gonfiava. Al friggere del topo il bambino pareva svegliarsi e riprendeva in mano lo stecco che faceva girare tra le falangi che parevano molto lunghe, con unghie lunghe. Ma nel fare questo respirava sempre più affannosamente, la cassa toracica si muoveva come un soffietto e dopo pochi minuti il bambino lasciava cadere il topo nella brace. Quello che pareva richiedere al suo corpo una fatica minore era infilare altri stecchi nel fuoco.
Il bambino andò avanti immerso in questi esercizi per circa venti minuti, poi, come definitivamente stanco, ritirò il topo dal fuoco e lo lasciò cadere in disparte, si sdraiò e parve addormentarsi. Ma non dormiva, di tanto in tanto apriva i grossi occhi bianchi e neri molto lucenti e sorrideva all’uomo.
Fu
in quei momenti di riposo che sorrise ai fotografi; i fotografi
fecero il loro lavoro e se ne andarono. Uno si chiamava André, era
un giovanotto grassoccio, sudato, coi capelli rossi dall’odore
acre. Strizzò l’occhio a una specie di suo capo senza macchina
fotografica, uno magro con un orecchio bucato da una pallottola e
disse: «Vachement bon», evidentemente soddisfatto delle fotografie
fatte al bambino.
Il
bambino pareva veramente dormire, duo o tre volte si scosse come per
brutti sogni o per una contrazione dei nervi e mostrò i denti
bianchissimi e sporgenti. Ma nemmeno allora dormiva perchè l'uomo
notò il sacchetto del ventre muoversi come se contenesse un piccolo
animale e un po' di liquido giallastro scorrere sotto l'osso del
bacino. Il bambino aprì gli occhi, si accorse di quello che aveva
fatto, si alzò traballando e si avviò piano piano fino a un
ciuffetto di fogliame con cui si pulì. Poi si lavò prendendo acqua
piovana da un secchio di plastica e si asciugò con delle garze che
sfilò da un gran pacco sulla porta della baracca. In quei momenti
l'uomo distolse gli occhi perchè, da uno sguardo del bambino, capì
che non voleva essere guardato. Lo guardò ancora quando il bambino
aveva finito del tutto di pulirsi e infatti il bambino sorrise e
riprese attentamente il lavoro.
Dalla
fessura dove aveva nascosto il topo cavò un vecchio coltello e
cominciò a raschiare dal topo tutta la parte carbonizzata. Questo
gli portò via molto tempo, sia per la lentezza dei movimenti, sia
per la minuzia da vecchio con cui il bambino puliva il topo. Quando
fu ben pulito cominciò a mangiarlo dalle natiche verso la schiena.
Mangiava a piccoli morsi né abbondanti né voraci come uno che ha
poca fame, di tanto in tanto guardava l'uomo con occhi abbastanza
indifferenti, faceva piccole pause durante le quali staccava la carne
del topo con le unghie e la mangiava con calma osservandola prima di
metterla in bocca.
Ricominciò
a piovere, l'uomo stette un poco sotto la pioggia, ma poiché la
pioggia gli impediva di vedere si rifugiò dentro la baracca dove
anche il bambino era entrato dopo aver lasciato cadere a terra quel
che restava del topo. Per entrare nella baracca il bambino aveva
dovuto alzarsi e fare due gradini: impiegò molto tempo a salire quei
gradini, appoggiandosi allo stipite, una volta traballò e stava per
cadere quando sopraggiunse l'uomo che lo afferrò per un braccio.
Restò in piedi, in equilibrio molto precario sulle ossa delle gambe
e tuttavia ne accavallò una come fanno i bambini vivaci e allegri,
aggrappandosi però con le falangi della mano allo stipite della
porta. L'uomo vide che nell'interno della baracca erano distesi due
cadaveri di bambini accanto ai quali stava accosciata una vecchia che
piangeva. La pioggia era diventata torrente e portò subito via i
resti del topo, anche l'uomo stava appoggiato allo stipite della
porta e non guardava più il bambino, guardava il torrente formato
dalla pioggia.
Goffredo Parise, da I sillabari
domenica 18 febbraio 2018
sabato 17 febbraio 2018
Sindrome da Rassegnazione
È la
storia di una malattia dal nome complicato
–uppgivenhetssyndrom, che
in italiano si traduce con Sindrome
da Rassegnazione– che
colpisce solo bambini, e soltanto in Svezia.
Il direttore dell’unità psichiatrica dell’ospedale universitario di Stoccolma ne ha raccontato i sintomi: “I bambini diventato totalmente passivi, immobili, fiacchi, schivi, taciturni, incapaci di mangiare e bere, incontinenti e privi di reazioni dinanzi a stimoli fisici o al dolore. Questi piccoli pazienti vengono chiamati ‘bambini apatici‘”.
Nei casi più gravi i piccoli pazienti cadono in coma, anche per molti mesi. Il fenomeno riguarda soprattutto i bambini, ma tra le vittime ci sono anche degli adolescenti. I casi sono stati documentati anche da Magnus Wennman, le cui immagini sono tra le finaliste del World Press Photo.
Il direttore dell’unità psichiatrica dell’ospedale universitario di Stoccolma ne ha raccontato i sintomi: “I bambini diventato totalmente passivi, immobili, fiacchi, schivi, taciturni, incapaci di mangiare e bere, incontinenti e privi di reazioni dinanzi a stimoli fisici o al dolore. Questi piccoli pazienti vengono chiamati ‘bambini apatici‘”.
Nei casi più gravi i piccoli pazienti cadono in coma, anche per molti mesi. Il fenomeno riguarda soprattutto i bambini, ma tra le vittime ci sono anche degli adolescenti. I casi sono stati documentati anche da Magnus Wennman, le cui immagini sono tra le finaliste del World Press Photo.
Ma
cosa hanno in comune questi bambini e questi ragazzi colpiti dalla
Sindrome da Rassegnazione? Sono tutti figli
di rifugiati,
a cui lo Stato
Svedese
ha revocato – o rischia di revocare – il permesso
di soggiorno.
Bambini che crescono in famiglie appese al filo del rinnovo, arrivati piccoli, o molto piccoli, in Svezia, cresciuti imparando una lingua e una cultura spesso molto differenti da quelle di mamma e papà, e incastrati in una trafila burocratica che rischia di rispedirli indietro, qualsiasi cosa “indietro” significhi.
Bambini che crescono in famiglie appese al filo del rinnovo, arrivati piccoli, o molto piccoli, in Svezia, cresciuti imparando una lingua e una cultura spesso molto differenti da quelle di mamma e papà, e incastrati in una trafila burocratica che rischia di rispedirli indietro, qualsiasi cosa “indietro” significhi.
Se
hanno una cosa in comune, questi bambini figli di molte parti del
mondo, è quindi l’insicurezza quotidiana, vissuta in prima
persona e filtrata dalla famiglia, in attesa di sapere cosa ne sarà
di loro.
Inizialmente,
in Svezia, in molti hanno ipotizzato una messinscena
da parte di questi bambini catatonici. Ma tutti i medici che hanno
preso in carico la questione hanno confermato la profondità della
patologia, che nei casi più estremi ha portato i soggetti in uno
stato di coma per oltre due anni.
Si
tratta quindi di una probabile forma di psicogenesi
culturale.
Un’alterazione delle funzioni psichiche dalle conseguenze profonde
che si presenta seguendo un effetto domino: più casi si presentano
e vengono curati, più è facile che se ne sviluppino altri. Il
Consiglio Nazionale di Sanità della Svezia ha dichiarato infatti
che solo tra il 2015 e il 2016 ci sono stati 169 episodi di SR.
Il neurologo svedese a capo della ricerca sulla strana sindrome all’interno dell’ospedale Pediatrico Astrid Lindgren di Stoccolma si è espresso più volte in merito alla necessità del rinnovo del permesso per le famiglie di questi bambini, per ottenerne la guarigione, anche se a volte passano mesi tra la conferma della possibilità di permanenza sul suolo svedese e la sparizione di tutti i sintomi della SR.
Il neurologo svedese a capo della ricerca sulla strana sindrome all’interno dell’ospedale Pediatrico Astrid Lindgren di Stoccolma si è espresso più volte in merito alla necessità del rinnovo del permesso per le famiglie di questi bambini, per ottenerne la guarigione, anche se a volte passano mesi tra la conferma della possibilità di permanenza sul suolo svedese e la sparizione di tutti i sintomi della SR.
Gli
svedesi hanno quindi dato vita ad una petizione
che ha superato le 60.000 firme e che ha ottenuto la
revoca della deportazione di 30.000 famiglie
con permesso scaduto.
All’interno di tutti i conflitti e di tutte le migrazioni, i bambini sono sempre vittime.
Il bisogno di sicurezza e di chiarezza, che è fondante per chi si trova nella fase dell’infanzia, non può esistere in un contesto di guerra, di fuga, di miseria estrema.
Attraversare precariamente il mondo al seguito dei genitori, in viaggi che a volte durano anni interi, mette a dura prova non solo la sopravvivenza, ma anche la psiche di questi bambini che – una volta giunti a destinazione – avrebbero diritto di potersi fermare, per costruire e ricostruire tutto quello che hanno perso. La condizione di precarietà legata alle scadenze dei rinnovi non permette di scaricare dalle spalle della famiglia la sensazione di paura, di fragilità, di precarietà, di fuga.
All’interno di tutti i conflitti e di tutte le migrazioni, i bambini sono sempre vittime.
Il bisogno di sicurezza e di chiarezza, che è fondante per chi si trova nella fase dell’infanzia, non può esistere in un contesto di guerra, di fuga, di miseria estrema.
Attraversare precariamente il mondo al seguito dei genitori, in viaggi che a volte durano anni interi, mette a dura prova non solo la sopravvivenza, ma anche la psiche di questi bambini che – una volta giunti a destinazione – avrebbero diritto di potersi fermare, per costruire e ricostruire tutto quello che hanno perso. La condizione di precarietà legata alle scadenze dei rinnovi non permette di scaricare dalle spalle della famiglia la sensazione di paura, di fragilità, di precarietà, di fuga.
I
bambini colpiti da Sindrome
da Rassegnazione
sono quindi bambini che crollano sotto il peso di una fatica
psicologica eccessiva lunga anni e che sembra non avere mai fine. E
di una vita che non trova mai casa.
Per questo, quella della uppgivenhetssyndrom è una storia terribile, ma è una storia necessaria. Perché ci rivela lo stato di salute del mondo.
Per questo, quella della uppgivenhetssyndrom è una storia terribile, ma è una storia necessaria. Perché ci rivela lo stato di salute del mondo.
Djeneta
(right) has been bedridden and unresponsive for two and a half years
and her sister Ibadeta for more than six months, with
uppgivenhetssyndrom (resignation syndrome), in Horndal, Sweden, on
March 2, 2017. It is a condition believed to exist only among
refugees in Sweden.
Magnus
Wennman / Aftonbladet
venerdì 16 febbraio 2018
Gioie
Una
delle gioie della mia vita di adolescente consisteva nella lettura:
mi sdraiavo sul mio letto con un libro e diventavo il testo. Se il
romanzo era bello, mi trasformavo in lui. Se era mediocre,
trascorrevo comunque delle ore meravigliose a godere delle cose che
non mi piacevano e a sorridere delle sue occasioni mancate. La
lettura non è un piacere sostitutivo. Vista dall'esterno, la mia
esistenza era scheletrica; vista dall'interno ispirava quello che
ispirano gli appartamenti il cui unico mobilio è una biblioteca
stracolma di libri: l'ammirazione gelosa per chi non si sovraccarica
del superfluo e trabocca del necessario. Nessuno
mi conosceva dall'interno: nessuno sapeva che non ero da compatire,
tranne me, e questo mi bastava. Approfittavo della mia
invisibilità per leggere giornate intere senza che nessuno se ne
accorgesse.
(...)
Non
avevo mai letto tanto come in quel periodo: divoravo libri, sia per
compensare le carenze passate sia per affrontare la crisi imminente.
Chi crede che leggere sia una fuga è all’opposto della verità:
leggere è trovarsi di fronte il reale nella sua massima
concentrazione, il che, stranamente, è meno spaventoso che avere a
che fare con le sue eterne diluizioni.
Amélie
Nothomb, Antichrista
mercoledì 14 febbraio 2018
lunedì 12 febbraio 2018
"Noi"
Dentro
il Noi che Sara pronunciava c’era tutta la vita che avremmo fatto
insieme, come una valigia riempita fino all’orlo di parole e su cui
poi ci si doveva sedere, per poterla chiudere. Perché esistesse quel
Noi era necessario che ci fossero dei figli. Perché il suo Noi era:
Noi che adesso siamo solo in due ma poi saremo in tre o quattro se
non cinque, e vi riempiremo il palazzo di bambini che all’inizio
piangeranno un po’, poi usciranno sul balcone con qualcuno che li
farà camminare sulle punte e voi potrete salutarli se vorrete, poi
sul balcone giocheranno da soli con la faccia dentro la merenda, poi
li vedrete uscire dal portone per mano alla madre per andare a
scuola, poi li vedrete uscire da soli, fare due metri, voltarsi
indietro, girare l’angolo e accendersi una sigaretta, allora ci
sentirete litigare con loro e sentirete sbattere le porte, le urla
che passeranno da una stanza all’altra della casa, poi ci sentirete
litigare tra di noi, tra madre e padre, perché non saremo d’accordo
sui modi di educare, e uno di noi lo vedrete uscire nervoso sul
balcone a fumare e tornare dentro e di nuovo uscire, e dei nostri
figli qualcuno uscirà tutti i pomeriggi e qualcun altro invece starà
sempre chiuso in casa, e gli vedrete cambiare le andature giú in
cortile, impettirsi sui sederi oppure rimbalzare molleggiati come
scimmie, qualcuno aprirà le spalle strafottente e qualcun altro le
richiuderà impaurito, e poi cominceranno a portare a casa i
fidanzati e le fidanzate e quando vi abituerete a uno di loro di
colpo poi non verrà piú, e andranno all’università e li vedrete
partire la domenica con un borsone e tornare il sabato con lo stesso
borsone piú sformato, e li vedrete portare via le loro poche cose in
un trasloco e venire ogni tanto per pranzo la domenica e per Pasqua e
per Natale, e noi, noi madre e noi padre, ci vedrete all’improvviso
orfani di figli stare seduti per lunghe ore sul balcone senza dirci
niente, per poi scattare in casa al suono del telefono e avere di
nuovo qualcosa da dirci dopo la telefonata, e poi vedrete delle pance
crescere attraversando il cortile insieme ai nostri figli e tutto
ricomincerà, e sentirete piangere un’altra volta dentro casa e noi
che allora invecchieremo tutto d’un colpo, in uno schianto
improvviso, e sorrideremo accontentandoci, affaccendati da questi
figli che i nostri figli ci avranno dato al posto loro.
Andrea
Bajani, Ogni promessa
domenica 11 febbraio 2018
mercoledì 7 febbraio 2018
martedì 6 febbraio 2018
lunedì 5 febbraio 2018
domenica 4 febbraio 2018
Parole per dirlo
Non
hai mai provato la sensazione di avere qualcosa dentro di te che
attende per uscire solo l’occasione che tu stesso potresti
fornirle? Una specie di eccesso di potenza di cui non si fa uso (…)
Penso
ad una strana sensazione che provo in certi momenti, la sensazione di
avere qualcosa di importante da dire e il potere di dirlo, ma senza
sapere che cosa sia, e non posso far uso di questo potere. Se ci
fosse un modo diverso di scrivere (…)
Le
cose che scrivo (…) arrivano assai poco lontano. Non sono, per così
dire, abbastanza importanti. Sento che potrei fare qualcosa di molto
più importante. Sì, di più intenso, di più violento. Ma cosa?
Cosa c’è di più importante da dire? E come si può essere più
violenti intorno alle cose di cui si deve scrivere? Le parole possono
essere paragonate ai raggi x; se si usano a dovere, attraversano ogni
cosa. Leggi, e ti trapassano.
A.
Huxley, Il mondo nuovo
giovedì 1 febbraio 2018
Vivere da antispecisti
L’evidenza
empirica ormai non lascia più margine al dubbio sul fatto che gli
animali abbiano degli interessi e siano in grado di provare piacere e
dolore; il nostro pensiero, pertanto, non può che rimodellarsi sulla
base di tali acquisizioni che, da Darwin in poi, sono venute
costituendosi come una massa tale da essere difficilmente ignorabile.
Solo per fare un esempio ogni anno circa 50 miliardi di animali non
umani – senza contare quelli di piccola taglia, tipo conigli e
molti pesci che sono venduti a tonnellaggio – passano per il
sistema “allevamento intensivo – mattatoio” dove, dopo una vita
miserabile caratterizzata da sofferenze inaudite, vengono
letteralmente fatti a pezzi per questioni di gusto. E a ben pensarci
l’alimentazione è solo una parte del problema: l’intera nostra
società si fonda teoricamente e materialmente sulla sofferenza e
sulla morte degli animali, dal modo in cui ci vestiamo a quello in
cui facciamo ricerca scientifica. Vivere da antispecisti allora vuol
dire aver ben chiaro che esiste una violenza “naturale”, su cui
possiamo ben poco, e una violenza istituzionalizzata, che invece
dobbiamo rigettare. Vivere da antispecisti significa, da un lato,
optare per una vita che si impegni ad eliminare dal mondo quanta più
sofferenza possibile, diventando vegani e rifiutando ogni prodotto di
derivazione animale e, dall’altro, far chiarezza sul fatto, come si
alludeva in precedenza, che oppressione animale e oppressione umana
sono inestricabilmente correlate e che, quindi, non è possibile
pensare di passare da presunzioni gerarchiche a favore di presunzioni
ugualitarie senza considerare l’animale, pena la ricaduta in
qualche altra forma di illibertà e di sfruttamento.
Massimo
Filippi
Iscriviti a:
Post (Atom)