Un
giorno di agosto del 1968 nuvole nere e basse correvano nel cielo di
una piccola città della Nigeria orientale e ogni tanto pioveva. La
pioggia cadeva in fasci di gocce enormi che scioglievano la terra
rossa delle strade e diventavano torrenti diretti chissà dove. Poi
tornava il sole tra il verde della foresta, l’acqua raccolta
nell’incavo delle grandi foglie dei banani cessava di zampillare e
le ultime gocce si bilanciavano sulla punta di quelle foglie, poi
cadevano. In quel momento ricominciava il caldo, la terra rossa si
asciugava fumando e negri ridenti vestiti di pezzi di nylon rosa e
azzurri sorgevano da sotto i banani e parevano rincorrersi con i
piedi con la voce e con le mani.
Quella
piccola città era la capitale di un minuscolo Stato che si chiamava
Biafra e che ora non esiste più. Un certo colonnello Ojukwu, un
negro pazzo che aveva studiato in Inghilterra aveva fondato quello
Stato e un numero immenso di bambini e di vecchi fuggiti dalla
foresta a causa della guerra stavano chiusi dentro recinti e vecchie
scuole e morivano di fame anche se in città c’erano dei banchetti
che vendevano scatolette di cibo a borsa nera. Ma i bambini e i
vecchi fuggiti dalla foresta non lo sapevano e se lo sapevano non
avrebbero mai avuto i soldi per comperare anche una sola di quelle
scatolette. La propaganda del colonnello pazzo voleva che morissero
per commuovere il mondo e convincerlo a riconoscere il proprio Stato
e ci riuscì, a farli morire, a commuovere il mondo e a farsi
riconoscere da qualcuno. Lo Stato durò pochi mesi, la guerra finì e
i milioni di morti scomparvero.
In uno di quei recinti sotto il sole e sotto l’ombra delle nubi nere e le docce improvvise, un uomo, un europeo, guardava un bambino nudo. Il bambino non era più completamente nero di pelle, né scuro di capelli perché era diventato quasi roseo e rossiccio di capelli per mancanza di proteine e pareva come spellato. Inoltre era così magro che la pelle sul suo cranio era come seccata dal sole, c’erano molte grinze secche intorno agli occhi e non aveva né collo, né guance, né labbra. Le dita delle mani e dei piedi erano le piccole ossa delle falangi che si muovevano stranamente insieme alle altre ossa dello scheletro. Nell’incavo del bacino aveva una piccola borsa di pelle grinzosa e tutti i suoi movimenti erano molto lenti, ondulati e traballanti. Sorrideva, guardando l’uomo che lo guardava e sorrideva anche ai fotografi che lo fotografavano in massa come sorpreso e lusingato di tanta attenzione. Il suo sorriso era quello di un centenario, che però in quel momento aveva qualcosa da fare, cioè sorrideva con cortesia, ma senza abbandonare il lavoro che lo occupava.
L’uomo che lo guardava da molto tempo aveva visto il bambino raccogliere degli stecchi intorno alla baracca e osservò che per fare questo aveva impiegato più di due ore, prima con piccolissimi mucchi di stecchi intorno a dove si trovava e in seguito riunendoli in un solo mucchio. Poi aveva guardato l’uomo, l’uomo capì lo sguardo, cavò di tasca un accendino e accese gli stecchi che cominciarono subito a bruciare con un po’ di fumo. A questo punto il bambino smise di guardare l’uomo, frugò con le dita dentro la fessura di una baracca, tirò fuori un topo infilato in un grosso stecco e cominciò a farlo girare sul fuoco con molta lentezza e con tutte due le mani. Di tanto intanto alimentava il fuoco con altri stecchi infilandoli con abilità uno sotto l’altro senza far cadere quelli che già bruciavano e diventavano brace. Questo lavoro però lo stancava, allora abbandonava il topo sul fuoco e il topo dopo un po’ friggeva e si gonfiava. Al friggere del topo il bambino pareva svegliarsi e riprendeva in mano lo stecco che faceva girare tra le falangi che parevano molto lunghe, con unghie lunghe. Ma nel fare questo respirava sempre più affannosamente, la cassa toracica si muoveva come un soffietto e dopo pochi minuti il bambino lasciava cadere il topo nella brace. Quello che pareva richiedere al suo corpo una fatica minore era infilare altri stecchi nel fuoco.
Il bambino andò avanti immerso in questi esercizi per circa venti minuti, poi, come definitivamente stanco, ritirò il topo dal fuoco e lo lasciò cadere in disparte, si sdraiò e parve addormentarsi. Ma non dormiva, di tanto in tanto apriva i grossi occhi bianchi e neri molto lucenti e sorrideva all’uomo.
In uno di quei recinti sotto il sole e sotto l’ombra delle nubi nere e le docce improvvise, un uomo, un europeo, guardava un bambino nudo. Il bambino non era più completamente nero di pelle, né scuro di capelli perché era diventato quasi roseo e rossiccio di capelli per mancanza di proteine e pareva come spellato. Inoltre era così magro che la pelle sul suo cranio era come seccata dal sole, c’erano molte grinze secche intorno agli occhi e non aveva né collo, né guance, né labbra. Le dita delle mani e dei piedi erano le piccole ossa delle falangi che si muovevano stranamente insieme alle altre ossa dello scheletro. Nell’incavo del bacino aveva una piccola borsa di pelle grinzosa e tutti i suoi movimenti erano molto lenti, ondulati e traballanti. Sorrideva, guardando l’uomo che lo guardava e sorrideva anche ai fotografi che lo fotografavano in massa come sorpreso e lusingato di tanta attenzione. Il suo sorriso era quello di un centenario, che però in quel momento aveva qualcosa da fare, cioè sorrideva con cortesia, ma senza abbandonare il lavoro che lo occupava.
L’uomo che lo guardava da molto tempo aveva visto il bambino raccogliere degli stecchi intorno alla baracca e osservò che per fare questo aveva impiegato più di due ore, prima con piccolissimi mucchi di stecchi intorno a dove si trovava e in seguito riunendoli in un solo mucchio. Poi aveva guardato l’uomo, l’uomo capì lo sguardo, cavò di tasca un accendino e accese gli stecchi che cominciarono subito a bruciare con un po’ di fumo. A questo punto il bambino smise di guardare l’uomo, frugò con le dita dentro la fessura di una baracca, tirò fuori un topo infilato in un grosso stecco e cominciò a farlo girare sul fuoco con molta lentezza e con tutte due le mani. Di tanto intanto alimentava il fuoco con altri stecchi infilandoli con abilità uno sotto l’altro senza far cadere quelli che già bruciavano e diventavano brace. Questo lavoro però lo stancava, allora abbandonava il topo sul fuoco e il topo dopo un po’ friggeva e si gonfiava. Al friggere del topo il bambino pareva svegliarsi e riprendeva in mano lo stecco che faceva girare tra le falangi che parevano molto lunghe, con unghie lunghe. Ma nel fare questo respirava sempre più affannosamente, la cassa toracica si muoveva come un soffietto e dopo pochi minuti il bambino lasciava cadere il topo nella brace. Quello che pareva richiedere al suo corpo una fatica minore era infilare altri stecchi nel fuoco.
Il bambino andò avanti immerso in questi esercizi per circa venti minuti, poi, come definitivamente stanco, ritirò il topo dal fuoco e lo lasciò cadere in disparte, si sdraiò e parve addormentarsi. Ma non dormiva, di tanto in tanto apriva i grossi occhi bianchi e neri molto lucenti e sorrideva all’uomo.
Fu
in quei momenti di riposo che sorrise ai fotografi; i fotografi
fecero il loro lavoro e se ne andarono. Uno si chiamava André, era
un giovanotto grassoccio, sudato, coi capelli rossi dall’odore
acre. Strizzò l’occhio a una specie di suo capo senza macchina
fotografica, uno magro con un orecchio bucato da una pallottola e
disse: «Vachement bon», evidentemente soddisfatto delle fotografie
fatte al bambino.
Il
bambino pareva veramente dormire, duo o tre volte si scosse come per
brutti sogni o per una contrazione dei nervi e mostrò i denti
bianchissimi e sporgenti. Ma nemmeno allora dormiva perchè l'uomo
notò il sacchetto del ventre muoversi come se contenesse un piccolo
animale e un po' di liquido giallastro scorrere sotto l'osso del
bacino. Il bambino aprì gli occhi, si accorse di quello che aveva
fatto, si alzò traballando e si avviò piano piano fino a un
ciuffetto di fogliame con cui si pulì. Poi si lavò prendendo acqua
piovana da un secchio di plastica e si asciugò con delle garze che
sfilò da un gran pacco sulla porta della baracca. In quei momenti
l'uomo distolse gli occhi perchè, da uno sguardo del bambino, capì
che non voleva essere guardato. Lo guardò ancora quando il bambino
aveva finito del tutto di pulirsi e infatti il bambino sorrise e
riprese attentamente il lavoro.
Dalla
fessura dove aveva nascosto il topo cavò un vecchio coltello e
cominciò a raschiare dal topo tutta la parte carbonizzata. Questo
gli portò via molto tempo, sia per la lentezza dei movimenti, sia
per la minuzia da vecchio con cui il bambino puliva il topo. Quando
fu ben pulito cominciò a mangiarlo dalle natiche verso la schiena.
Mangiava a piccoli morsi né abbondanti né voraci come uno che ha
poca fame, di tanto in tanto guardava l'uomo con occhi abbastanza
indifferenti, faceva piccole pause durante le quali staccava la carne
del topo con le unghie e la mangiava con calma osservandola prima di
metterla in bocca.
Ricominciò
a piovere, l'uomo stette un poco sotto la pioggia, ma poiché la
pioggia gli impediva di vedere si rifugiò dentro la baracca dove
anche il bambino era entrato dopo aver lasciato cadere a terra quel
che restava del topo. Per entrare nella baracca il bambino aveva
dovuto alzarsi e fare due gradini: impiegò molto tempo a salire quei
gradini, appoggiandosi allo stipite, una volta traballò e stava per
cadere quando sopraggiunse l'uomo che lo afferrò per un braccio.
Restò in piedi, in equilibrio molto precario sulle ossa delle gambe
e tuttavia ne accavallò una come fanno i bambini vivaci e allegri,
aggrappandosi però con le falangi della mano allo stipite della
porta. L'uomo vide che nell'interno della baracca erano distesi due
cadaveri di bambini accanto ai quali stava accosciata una vecchia che
piangeva. La pioggia era diventata torrente e portò subito via i
resti del topo, anche l'uomo stava appoggiato allo stipite della
porta e non guardava più il bambino, guardava il torrente formato
dalla pioggia.
Goffredo Parise, da I sillabari
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