L’evidenza
empirica ormai non lascia più margine al dubbio sul fatto che gli
animali abbiano degli interessi e siano in grado di provare piacere e
dolore; il nostro pensiero, pertanto, non può che rimodellarsi sulla
base di tali acquisizioni che, da Darwin in poi, sono venute
costituendosi come una massa tale da essere difficilmente ignorabile.
Solo per fare un esempio ogni anno circa 50 miliardi di animali non
umani – senza contare quelli di piccola taglia, tipo conigli e
molti pesci che sono venduti a tonnellaggio – passano per il
sistema “allevamento intensivo – mattatoio” dove, dopo una vita
miserabile caratterizzata da sofferenze inaudite, vengono
letteralmente fatti a pezzi per questioni di gusto. E a ben pensarci
l’alimentazione è solo una parte del problema: l’intera nostra
società si fonda teoricamente e materialmente sulla sofferenza e
sulla morte degli animali, dal modo in cui ci vestiamo a quello in
cui facciamo ricerca scientifica. Vivere da antispecisti allora vuol
dire aver ben chiaro che esiste una violenza “naturale”, su cui
possiamo ben poco, e una violenza istituzionalizzata, che invece
dobbiamo rigettare. Vivere da antispecisti significa, da un lato,
optare per una vita che si impegni ad eliminare dal mondo quanta più
sofferenza possibile, diventando vegani e rifiutando ogni prodotto di
derivazione animale e, dall’altro, far chiarezza sul fatto, come si
alludeva in precedenza, che oppressione animale e oppressione umana
sono inestricabilmente correlate e che, quindi, non è possibile
pensare di passare da presunzioni gerarchiche a favore di presunzioni
ugualitarie senza considerare l’animale, pena la ricaduta in
qualche altra forma di illibertà e di sfruttamento.
Massimo
Filippi
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