sabato 20 luglio 2019

Il birraio di Preston




La scena rappresentava il cortiglio di una fabbrica di birra a Preston in Inghilterra, secondo quanto diceva un foglietto che era stato dato a tutti al momento della trasuta in teatro. A mano mancina c'era la facciata di una casa a due piani con una scala di fora, a mano dritta c'era un cancello grande di ferro, in fondo un muro ammattunato con in mezzo una porta. Si vedevano carriole, sacchi pieni di non si sa che cosa, pale e cannestri messi alla sanfasò.
La musica attaccò e spuntò uno con una parannanza grigia, inteso, come da foglietto, Bob il capoperaio. Era tutto allegro, si mise a sonare una campana. Subito da darrè il cancello trasirono sei persone con la stessa parannanza, ma invece di mettersi a travagliare si sistemarono in fila avanti alla gente che stava in teatro. Dalle facce e dai gesti che facevano parevano persone più felici ancora del loro capo. Questi li taliò, allargò le vrazza e attaccò.

Amici, alla fabbrica allegri corriamo!

I sei operai parsero toccare il cielo con un dito.

Allegri corriamo!

fecero tutti assieme, isando le vrazza.

Con biade e luppoli la birra facciamo!

I sei con le parannanze si misero a satare di gioia.

La birra facciamo!

Il caposquadra Bob si esibì in una girata torno torno il cortiglio, facendo mostra degli attrezzi.

Il nostro è il migliore d'ogni altro mestier.

I sei si abbracciarono, si diedero grandi manate darrè la schina.

D'ogni altro mestier.

E Bob, correndo da una carriola a un sacco, da un sacco a una pila di cannestri.

Facciamo un liquore che arreca piacer.

«A tia piace!» esclamè a voce alta uno che stava assittato nei posti proprio sotto al soffitto. «A mia la birra pare pisciazza, a mia mi piace il vino!».
La voce aveva sovrastato magari la musica. Ma il coro non si lasciò stunare, proseguì.

Che arreca piacer.

A questo punto, ad arrabbiarsi per davvero, fu don Gregorio Smecca, commerciante di mandorle e trita, ma soprattutto omo di puntiglio.
«Ma perchè questi sei stronzi ripetono sempre le cose? Che credono, che siamo zulù? Noi quello che c'è da capire lo capiamo a prima botta, senza bisogno di ripetizione!».
Ne approfittò Lollò Sciacchitano, che stava assittato in loggione ma distante dal suo amico Sciaverio, quello che aveva proclamato che la birra non gli piaceva.
«Sciavè, ma pirchì sunnu accussì allegri?» spiò con la sua voce che in mare si sentiva magari sopra la tempesta.
«Perchè vanno a travagliare» fu la risposta di Sciaverio.
«Ma non dire minchiate!».
«E tu allora spialo a loro».
Sciacchitano si susì, si rivolse ai sette ch'erano in palcoscenico.
«Domando pirdonanza, ma me la volete contare giusta? Perchè siete tanto contenti di ire a travagliare?».
Questa volta sulla scena ci fu un certo sbandamento. Due del coro si misero la mano a pampèra sugli occhi per pararli dai lumi di scena e taliàre verso il loggione, ma la bacchetta del direttore li rimise subito in riga.
Nel palco reale, il prefetto Bortuzzi, vista la mala parata, sentì che gli acchianava il sangue alla testa. Fece rabbiosa 'nzinga al delegato Puglisi che aveva alle spalle.
«Arresti queste teste di 'azzo! Subito!».
Puglisi non se la sentiva d'eseguire l'ordine, sapeva che a quel punto bastava un biz per fare succedere il quarantotto.
«Guardi, Eccellenza, mi perdoni, ma non c'è assolutamente cattivo animo o intenzione in quello che fanno. Non sono disturbatori, io li conosco uno per uno. Brava gente, mi creda, rispettosa. Solo che non hanno mai visto un teatro e non sanno come starci».
Ce la fece: il prefetto, che era tutto sudato, non insistette.
Intanto dalla scaletta a mancina era comparso Daniele Robinson, il padrone della birreria. Lui, poi, era più allegro degli altri e spiegò finalmente che quel giorno era festa perchè si maritava con una certa Effy. La notizia a momenti fece svenire tutti dalla contentezza. Attaccò Bob:

Chi miglior poteva sceglierla chi più buona e chi più bella?

I sei con la parannanza non fallarono manco questa volta, furono pronti a ripetere.

Chi più buona e chi più bella?

Don Gregorio Smecca non ce la fece più a resistere. «Arrè, sta camurria! Io me ne vado, buonanotte». Si susì e se ne andò, lasciando in tridici sua moglie.
Intanto quelli sulla scena descrivevano Effy come «gemma preziosissima» e come «emblema dell'amor». Daniele Robinson allora si mise a regalare soldi a tutti mentre ordinava che si facesse una grande festa.

Cercate, trovate in tutti i contorni i flauti, i timballi, i pifferi, i corni.

«I corni non hai bisogno di cercarli, vengono da soli» disse una voce dal solito loggione. Qualcuno rise.
«Ma il timballo non è quello che mi fai col riso, la carne e i piselli?» spiò seriamente Gammacurta alla moglie.
«Sì».
«E allora che ci accucchia coi pifferi e i flauti?».
Nel teatro si fece finalmente tanticchia di silenzio. Gli operai se ne erano nisciuti tutti a cercare gli strumenti e ad invitare i vicini. Daniele, magari se allato a lui non c'era più nisciuno, si mise a fare gesti misteriosi a Bob come per dirgli una cosa segreta. Bob si avvicinò e il padrone gli rivelò che in giornata sarebbe arrivato un suo fratello gemello, che era da due anni che non si vedeva da quelle parti. Di nome faceva Giorgio, era un militare, ma non era tanto quieto di carattere. Bob si mostrò dubbioso:

Ed ei verrà?

Daniele si fece pensoso, poi arrispose.

Lo spero, se quel brutto mestiero di
stare tra le palle...

A sentire il perlomeno curioso mestiero dei gemello Giorgio, la latata mascolina degli spettatori trattenne il fiato, a qualcuno parse di non avere capito bene e s'informò col vicino. Daniele, come voleva la musica, ripetè l'occupazione del fratello in tono più alto.

Se quel brutto mestiero
di stare tra le palle...

Le risate esplosero questa volta immediate, percorrendo tutto l'arco dalla a alla u e poi ci furono magari quelle a raschio di gola, a stranuto, a fontanella, a singhiozzo soffocato, ad avvio di motore, a verso di porco e via dicendo. Sicchè la spiegazione cantata dello strano mestiero di Giorgio si perse completamente:

... di stare tra le palle e la mitraglia.

La risata che il cavaliere Mistretta tentò di trattenere fu quella che fece maggiore scarmazzo. Il cavaliere era asmatico, l'aria gli venne a mancare e per ripigliarla tirò un respiro che sonò preciso a un corno da nebbia. Malgrado la sonata, il fiato non gli tornò e cominciò ad annaspare, dando grandi e convulse manate a chi gli stava attorno. La moglie si scantò e si mise a fare voci, altri corsero allato al cavaliere e uno, più pronto degli altri, se lo carricò sulle spalle e se lo portò nell'atrio con la signora darrè che faceva come una maria.
In un primo momento, il dottor Gammacurta si era congratulato con il cavaliere, pensando che quella rappresentazione fosse stata messa in piedi da Mistretta per disturbare, secondo gli accordi, lo spettacolo. Poi capì che quello invece faceva sul serio.
Sul palcoscenico intanto era spuntata lei, Effy, la zita settebellizze. Era un fimminone di due metri e passa, con certe mani che parevano pale e un naso che uno ci si poteva saldamente afferrare se tirava vento forte. E sotto questo naso c'era un'ombra scura di baffi che il belletto generosamente cosparso non riusciva a nascondere. Si muoveva inoltre a larghe falcate, battendo rumorosamente i talloni.
La moglieri di Giosuè Zito, signora Filippa, stava serena. Essendo nata completamente sorda, non aveva sentito niente di quello che dicevano tanto in platea quanto in palcoscenico. Tutto, per lei, si stava svolgendo nella pace degli angeli. Gli venne però curiosità alla vista della fimminona.
«Giosuè, cu è?».
Giosuè Zito, all'apparire di Effy in scena, si era messo in allarme.
«Non me la contano giusta» aveva pensato. «Qua sotto c'è qualcosa che fete, questa non è una fimmina, ma un omo».
«È Giorgio, il fratello gemello» arrisponnì convinto e la risposta, naturalmente, la dovette gridare per superare la surdìa della moglieri.
Esplose un'altra risata, ma il contributo di Giosuè Zito all'affossamento dell'opera era stato del tutto involontario.
Evidentemente in preda al panico per tutto quello che stava capitando in sala e per quello che aveva avuto modo di sentire mentre si approntava per entrare in scena, la cantante che faceva Effy con la faccia, con gli occhi, con l'arravuglìo convulso delle mani, con certi scatti improvvisi della stazza, mostrava tutto l'opposto di quello che doveva esprimere, la contentezza per il prossimo sposalizio. Al gesto imperioso dei maestro, principiò con una voce che pareva un lumino senza più stoppaglio.

L'arte anch'io conosco un poco delle tenere smorfiette,
so alternare tempo e loco occhiatine e parolette:
mille amanti-spasimanti ho veduto delirar.

A questo punto, dal loggione, si udì la voce di Lollò Sciacchitano. «Sciavè, tu saresti capace di spasimare per una fìmmina accussì?». Stentorea la risposta di Sciaverio:
«Manco dopu trent'anni di carzaro duro, Lollò».
Il dottor Gammacurta provò pena per quella donna che in palcoscenico continuava coraggiosamente a cantare, sentì che non era giusto, che quella povirazza che si guadagnava il pane non c'entrava per niente coi vigatesi, coi montelusani, con quello stronzo di prefetto.
«Vado a vedere come si sente il cavaliere Mistretta» disse alla moglieri. Si susì dalla poltrona, fece susìre le quattro persone che gl'impedivano d'arrivare al corridoio e se n'andò nell'atrio.

Andrea Camilleri, Il birraio di Preston







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