La
scena rappresentava il cortiglio di una fabbrica di birra a Preston
in Inghilterra, secondo quanto diceva un foglietto che era stato dato
a tutti al momento della trasuta in teatro. A mano mancina c'era la
facciata di una casa a due piani con una scala di fora, a mano dritta
c'era un cancello grande di ferro, in fondo un muro ammattunato con
in mezzo una porta. Si vedevano carriole, sacchi pieni di non si sa
che cosa, pale e cannestri messi alla sanfasò.
La
musica attaccò e spuntò uno con una parannanza grigia, inteso,
come da foglietto, Bob il capoperaio. Era tutto allegro, si mise a
sonare una campana. Subito da darrè il cancello trasirono sei
persone con la stessa parannanza, ma invece di mettersi a
travagliare si sistemarono in fila avanti alla gente che stava in
teatro. Dalle facce e dai gesti che facevano parevano persone più
felici ancora del loro capo. Questi li taliò, allargò le vrazza e
attaccò.
Amici,
alla fabbrica allegri corriamo!
I
sei operai parsero toccare il cielo con un dito.
Allegri
corriamo!
fecero
tutti assieme, isando le vrazza.
Con
biade e luppoli la birra facciamo!
I
sei con le parannanze si misero a satare di gioia.
La
birra facciamo!
Il
caposquadra Bob si esibì in una girata torno torno il cortiglio,
facendo mostra degli attrezzi.
Il
nostro è il migliore d'ogni altro mestier.
I
sei si abbracciarono, si diedero grandi manate darrè la schina.
D'ogni
altro mestier.
E
Bob, correndo da una carriola a un sacco, da un sacco a una pila di
cannestri.
Facciamo
un liquore che arreca piacer.
«A
tia piace!» esclamè a voce alta uno che stava assittato nei posti
proprio sotto al soffitto. «A mia la birra pare pisciazza, a mia mi
piace il vino!».
La
voce aveva sovrastato magari la musica. Ma il coro non si lasciò
stunare, proseguì.
Che
arreca piacer.
A
questo punto, ad arrabbiarsi per davvero, fu don Gregorio Smecca,
commerciante di mandorle e trita, ma soprattutto omo di puntiglio.
«Ma
perchè questi sei stronzi ripetono sempre le cose? Che credono, che
siamo zulù? Noi quello che c'è da capire lo capiamo a prima botta,
senza bisogno di ripetizione!».
Ne
approfittò Lollò Sciacchitano, che stava assittato in loggione ma
distante dal suo amico Sciaverio, quello che aveva proclamato che la
birra non gli piaceva.
«Sciavè,
ma pirchì sunnu accussì allegri?» spiò con la sua voce che in
mare si sentiva magari sopra la tempesta.
«Perchè
vanno a travagliare» fu la risposta di Sciaverio.
«Ma
non dire minchiate!».
«E
tu allora spialo a loro».
Sciacchitano
si susì, si rivolse ai sette ch'erano in palcoscenico.
«Domando
pirdonanza, ma me la volete contare giusta? Perchè siete tanto
contenti di ire a travagliare?».
Questa
volta sulla scena ci fu un certo sbandamento. Due del coro si
misero la mano a pampèra sugli occhi per pararli dai lumi di scena
e taliàre verso il loggione, ma la bacchetta del direttore li
rimise subito in riga.
Nel
palco reale, il prefetto Bortuzzi, vista la mala parata, sentì che
gli acchianava il sangue alla testa. Fece rabbiosa 'nzinga al
delegato Puglisi che aveva alle spalle.
«Arresti
queste teste di 'azzo! Subito!».
Puglisi
non se la sentiva d'eseguire l'ordine, sapeva che a quel punto
bastava un biz per fare succedere il quarantotto.
«Guardi,
Eccellenza, mi perdoni, ma non c'è assolutamente cattivo animo o
intenzione in quello che fanno. Non sono disturbatori, io li
conosco uno per uno. Brava gente, mi creda, rispettosa. Solo che
non hanno mai visto un teatro e non sanno come starci».
Ce
la fece: il prefetto, che era tutto sudato, non insistette.
Intanto
dalla scaletta a mancina era comparso Daniele Robinson, il padrone
della birreria. Lui, poi, era più allegro degli altri e spiegò
finalmente che quel giorno era festa perchè si maritava con una
certa Effy. La notizia a momenti fece svenire tutti dalla
contentezza. Attaccò Bob:
Chi
miglior poteva sceglierla chi più buona e chi più bella?
I
sei con la parannanza non fallarono manco questa volta, furono
pronti a ripetere.
Chi
più buona e chi più bella?
Don
Gregorio Smecca non ce la fece più a resistere. «Arrè, sta
camurria! Io me ne vado, buonanotte». Si susì e se ne andò,
lasciando in tridici sua moglie.
Intanto
quelli sulla scena descrivevano Effy come «gemma preziosissima» e
come «emblema dell'amor». Daniele Robinson allora si mise a
regalare soldi a tutti mentre ordinava che si facesse una grande
festa.
Cercate,
trovate in tutti i contorni i flauti, i timballi, i pifferi, i
corni.
«I
corni non hai bisogno di cercarli, vengono da soli» disse una voce
dal solito loggione. Qualcuno rise.
«Ma
il timballo non è quello che mi fai col riso, la carne e i
piselli?» spiò seriamente Gammacurta alla moglie.
«Sì».
«E
allora che ci accucchia coi pifferi e i flauti?».
Nel
teatro si fece finalmente tanticchia di silenzio. Gli operai se ne
erano nisciuti tutti a cercare gli strumenti e ad invitare i
vicini. Daniele, magari se allato a lui non c'era più nisciuno, si
mise a fare gesti misteriosi a Bob come per dirgli una cosa
segreta. Bob si avvicinò e il padrone gli rivelò che in giornata
sarebbe arrivato un suo fratello gemello, che era da due anni che
non si vedeva da quelle parti. Di nome faceva Giorgio, era un
militare, ma non era tanto quieto di carattere. Bob si mostrò
dubbioso:
Ed
ei verrà?
Daniele
si fece pensoso, poi arrispose.
Lo
spero, se quel brutto mestiero di
stare
tra le palle...
A
sentire il perlomeno curioso mestiero dei gemello Giorgio, la latata
mascolina degli spettatori trattenne il fiato, a qualcuno parse di
non avere capito bene e s'informò col vicino. Daniele, come voleva
la musica, ripetè l'occupazione del fratello in tono più alto.
Se
quel brutto mestiero
di
stare tra le palle...
Le
risate esplosero questa volta immediate, percorrendo tutto l'arco
dalla a alla u e poi ci furono magari quelle a raschio di gola, a
stranuto, a fontanella, a singhiozzo soffocato, ad avvio di motore,
a verso di porco e via dicendo. Sicchè la spiegazione cantata dello
strano mestiero di Giorgio si perse completamente:
...
di stare tra le palle e la mitraglia.
La
risata che il cavaliere Mistretta tentò di trattenere fu quella che
fece maggiore scarmazzo. Il cavaliere era asmatico, l'aria gli venne
a mancare e per ripigliarla tirò un respiro che sonò preciso a un
corno da nebbia. Malgrado la sonata, il fiato non gli tornò e
cominciò ad annaspare, dando grandi e convulse manate a chi gli
stava attorno. La moglie si scantò e si mise a fare voci, altri
corsero allato al cavaliere e uno, più pronto degli altri, se lo
carricò sulle spalle e se lo portò nell'atrio con la signora darrè
che faceva come una maria.
In
un primo momento, il dottor Gammacurta si era congratulato con il
cavaliere, pensando che quella rappresentazione fosse stata messa in
piedi da Mistretta per disturbare, secondo gli accordi, lo
spettacolo. Poi capì che quello invece faceva sul serio.
Sul
palcoscenico intanto era spuntata lei, Effy, la zita settebellizze.
Era un fimminone di due metri e passa, con certe mani che parevano
pale e un naso che uno ci si poteva saldamente afferrare se tirava
vento forte. E sotto questo naso c'era un'ombra scura di baffi che
il belletto generosamente cosparso non riusciva a nascondere. Si
muoveva inoltre a larghe falcate, battendo rumorosamente i talloni.
La
moglieri di Giosuè Zito, signora Filippa, stava serena. Essendo
nata completamente sorda, non aveva sentito niente di quello che
dicevano tanto in platea quanto in palcoscenico. Tutto, per lei, si
stava svolgendo nella pace degli angeli. Gli venne però curiosità
alla vista della fimminona.
«Giosuè,
cu è?».
Giosuè
Zito, all'apparire di Effy in scena, si era messo in allarme.
«Non
me la contano giusta» aveva pensato. «Qua sotto c'è qualcosa che
fete, questa non è una fimmina, ma un omo».
«È
Giorgio, il fratello gemello» arrisponnì convinto e la risposta,
naturalmente, la dovette gridare per superare la surdìa della
moglieri.
Esplose
un'altra risata, ma il contributo di Giosuè Zito all'affossamento
dell'opera era stato del tutto involontario.
Evidentemente
in preda al panico per tutto quello che stava capitando in sala e
per quello che aveva avuto modo di sentire mentre si approntava per
entrare in scena, la cantante che faceva Effy con la faccia, con gli
occhi, con l'arravuglìo convulso delle mani, con certi scatti
improvvisi della stazza, mostrava tutto l'opposto di quello che
doveva esprimere, la contentezza per il prossimo sposalizio. Al
gesto imperioso dei maestro, principiò con una voce che pareva un
lumino senza più stoppaglio.
L'arte
anch'io conosco un poco delle tenere smorfiette,
so
alternare tempo e loco occhiatine e parolette:
mille
amanti-spasimanti ho veduto delirar.
A
questo punto, dal loggione, si udì la voce di Lollò Sciacchitano.
«Sciavè, tu saresti capace di spasimare per una fìmmina
accussì?». Stentorea la risposta di Sciaverio:
«Manco
dopu trent'anni di carzaro duro, Lollò».
Il
dottor Gammacurta provò pena per quella donna che in palcoscenico
continuava coraggiosamente a cantare, sentì che non era giusto, che
quella povirazza che si guadagnava il pane non c'entrava per niente
coi vigatesi, coi montelusani, con quello stronzo di prefetto.
«Vado
a vedere come si sente il cavaliere Mistretta» disse alla moglieri.
Si susì dalla poltrona, fece susìre le quattro persone che
gl'impedivano d'arrivare al corridoio e se n'andò nell'atrio.
Andrea
Camilleri, Il birraio di Preston
Nessun commento:
Posta un commento