Noi
siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi,
romani, arabi,
pisani, bizantini, piemontesi.
Siamo
le ginestre d’oro giallo che spiovono
sui sentieri rocciosi
come grandi lampade accese.
Siamo la solitudine selvaggia, il
silenzio immenso e profondo,
lo splendore del cielo, il bianco
fiore del cisto.
Siamo
il regno ininterrotto del lentisco,
delle onde che ruscellano i
graniti antichi,
della rosa canina,
del vento,
dell’immensità del mare.
Noi siamo sardi.
Grazia Deledda
31.
C’è
poi la gentilezza, che è senza
spiegazioni, non ha ratio, è
istanza
cellulare, è forza pura e disarmata,
si propaga
come suono nello spazio.
Non appartiene solamente ai buoni,
è
un accadimento di natura, è come
un rancore che si spezza. Non
vale
niente, ma riscatta una giornata.
Andrea Bajani, Dimora naturale
Mare,
sono io la tua madre oggi, e tu – figlio mio largo
e solcato –
capriccioso bambino di sale – quanto ti amo – io.
Mariangela Gualtieri, da Senza polvere senza peso
6.
Mi succede a ogni trasloco: basta
un libro poggiato sopra un mobile
poi si allarga come l’edera sui muri
in poco tempo la casa è una foresta.
Dopo pochi mesi c’è già la fioritura
è una festa di forme e di colori,
dai volumi si sprigiona il coro
proprio della specie, l’impostura.
29.
Chi glielo dice, e in quale lingua,
alla marmotta o allo stambecco
chi glielo dice adesso al picchio
alla vipera e a camoscio, chi dice
alla foglia sconfinata per il vento
che c'è una soglia, che è dentro
un altro stato, che chi l'ha detto
che la terra è uguale dappertutto
∞
È successo ancora, anche questa volta
è transitata non distante dalla terra,
visibile a occhio nudo, senza cannocchiale.
Accade ogni imprevedibile numero di anni,
la poesia ha traiettorie solo a posteriori,
è un asteroide disperso, non monitorato.
Non esplode, non fa danni, lascia polvere
di versi sui balconi e torna nel buio siderale.
Andrea Bajani, Dimora naturale
Era sfuggita al bagliore accecante della calura pomeridiana ritirandosi nella fresca penombra della sua camera. Non sentiva dolore, non ancora, ma si cautelava prima di un’eventuale minaccia. Vedeva dei puntini luminosi davanti agli occhi, punture di spillo, come se la stoffa consunta del mondo visibile le venisse mostrata sullo sfondo di una luce molto più forte. Sentiva nell’angolo in alto a destra del cervello una specie di peso, il corpo acciambellato e inerte di un animale dormiente; ma se si portava una mano alla testa e premeva, quella presenza spariva dalle coordinate dello spazio reale. Attualmente si trovava in quell’angolo in alto a destra dei suoi pensieri, e con l’immaginazione riusciva ad alzarsi sulle punte dei piedi e a toccarsi il punto esatto. La cosa essenziale, comunque, era non provocarlo; una volta che la pigra creatura si fosse spostata dalla zona periferica al centro, allora le stilettate di dolore avrebbero ottenebrato ogni forma di pensiero, e non ci sarebbe stato più verso di poter scendere a cena (…)
L’agitazione continua riguardo a figli, marito, sorella e domestiche, aveva scorticato la sua sensibilità; emicranie, amore materno e, nel corso degli anni, ore e ore passate sdraiata immobile a letto, avevano distillato in lei una sorta di sesto senso, una ricettività tentacolare che strisciava dalla penombra per insinuarsi in ogni anfratto della casa, inosservata e onnisciente. Indietro, tornava solo la verità (…)
Un mormorio indistinto di voci orecchiato attraverso un pavimento foderato di moquette le giungeva più nitido di un dattiloscritto; una conversazione filtrata da una, o meglio ancora, da due pareti, arrivava spoglia di ogni inutile sfumatura o perifrasi. Quello che per gli altri sarebbe stato un rumore in sordina, rappresentava per i suoi sensi all’erta, sintonizzati alla perfezione come l’antenna di una vecchia radio, un’insopportabile amplificazione. (…)
La paura del dolore la teneva al suo posto. Nei casi peggiori, quando non riusciva a contenerlo, due lame affilate di coltelli da cucina affondavano dentro il suo nervo ottico, più e più volte, esercitando una pressione crescente che la sigillava dentro la sua solitudine.
Ian McEwan, Espiazione
Sulla luna, per piacere,
non mandate un generale:
ne farebbe una caserma
con la tromba e il caporale.
Non mandateci un banchiere
sul satellite d’argento,
o lo mette in cassaforte
per mostrarlo a pagamento.
Non mandateci un ministro
col suo seguito di uscieri:
empirebbe di scartoffie
i lunatici crateri.
Ha da essere un poeta
sulla Luna ad allunare:
con la testa nella luna
lui da un pezzo ci sa stare…
A sognar i più bei sogni
è da un pezzo abituato:
sa sperare l’impossibile
anche quando è disperato.
Or che i sogni e le speranze
si fan veri come fiori,
sulla luna e sulla terra
fate largo ai sognatori!
Gianni
Rodari
Nella mia cucina ci sono come delle ombre
che non vedo ormai più,
non vengono più fuori.
A volte parrebbe che si facessero vive
come per dirmi
che, dopotutto, non è nulla
se sono passati cinquant'anni.
Sono ombre
che stanno nei cartocci,
nelle scatole d'ottone per i ditali,
nelle ceste piene di cipolle.
No, non c'è nulla da fare,
anche se mi volto di scatto
non le prendo mai.
Solo se spengo la luce
le vedo tutte assieme
dentro i miei occhi.
Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio.
Per noi, la causa prima dell'angoscia è l'impossibilità di realizzare l'azione gratificante, e sottrarsi a una sofferenza con la fuga o la lotta è anch'esso un modo di gratificarsi, quindi di sfuggire all'angoscia.
Henri Laborit, Elogio della fuga
Perché il tramonto, come la sopravvivenza, esiste solo nel momento in cui sta per sparire. Per essere bellissimi e risplendere su questa terra, prima qualcuno deve vederci, ma essere visti significa essere prede.
Ocean Vuong, Brevemente risplendiamo sulla terra
I turned to a shadow
And saw her there
So all alone
She had those sad china eyes
That sang each time she smiled
Oh, the time just slipped on by
And with the time
So did our love
Ah, her every move
Just like a fever
Just like a fever
Burnin' inside would not leave me
In un esperimento descritto da Henri Laborit ci sono tre gabbie e tre topi. Alle povere bestie vengono somministrate scosse elettriche. Il primo topo ha la possibilità di uscire dalla gabbia. Il secondo non può, ma gli è stato affiancato un suo simile su cui sfogare rabbia e frustrazione. Al terzo entrambe le alternative sono precluse. Sottoposti a controlli, i primi due non accusano sintomi. Al terzo vengono invece diagnosticate perdita di pelo, ipertensione arteriosa e ulcera gastrica: l’impossibilità di agire fa ammalare. L’esperimento ci turba perché ci rappresenta. Quali sintomi si manifestano in una società in cui l’azione politica è sentita come impossibile non perché proibita ma perché ineffettuale, senza esito, svuotata di ogni concretezza? Dicono i filosofi che l’umano è davvero tale solo se ha la facoltà di agire politicamente in mezzo agli altri, altrimenti è puro metabolismo, biologia, animalità. Si può discutere se questo sia vero. Non si può discutere su quanto sia diventato difficile verificarlo. Certo è che l’impossibilità di agire ci rende meno umani.
Daniele Giglioli, Stato di minorità
Tutti abbiamo un mondo dentro
e tutti sopportiamo la solitudine
dire che dentro di me
ci sono solo molle e legno
è come dire che dentro di voi
ci sono solo cuore fegato o polmoni.
Assisto non impassibile
a vite complesse o frantumate
assorbo discorsi irascibili
o promettenti ma
in questa casa insonne
io sono l’astronave.
Tra le mie strutture a piume
reggo una bambina la nascondo
la porto in alto mare
e in cielo profondo,
è un’esperta di derive
di cunicoli scavati nella sostanza
della notte, la conservo tra i cuscini
come un’improvvisa sobrietà.
In questo viaggio di allontanamento
lo so lei sogna
qualcuno che oltrepassi la distanza
senza nulla da offrire
una faccia che tramonti
e si lasci guardare,
una protezione terrestre.
Di forte la bambina
ha solo le spalle
e pensieri che danno alla notte
sonagli di sapienza.
In questa marcia di avvicinamento
stupisco di una confidente intimità
senza pentimenti e saggio
la mia flessibilità
non sotto il peso di una bambina
ma di un dolore
pari a quello di un adulto
ma senza mondo.
Io sono un sofà
che conduce a una visione
aperta
su voi bestemmiatori degli oggetti
ospitando
una ferita di notte polare
in completa nudità.
Chandra Livia Candiani, Il sofà
Strappati dalle loro madri e rinchiusi fino alla loro morte in minuscoli e bui box. È così che inizia l’incubo per i cosiddetti “vitelli da latte”, costretti a patire le pene dell’inferno per un motivo ben preciso: ottenere carne tenerissima e chiara, da molti considerata pregiata. Separare i vitellini dalle madri poco dopo la loro nascita è una pratica standard seguita negli allevamenti intensivi di tutto il mondo, Europa compresa. Un metodo brutale e disumana che – in nome del profitto – provoca grande sofferenza ai vitellini.
Il paradosso è che i piccoli vitelli, nati da qualche settimana, vengono alimentati con latte artificiale, mentre quello prodotto dalle loro mamme viene destinato all’industria lattiero-casearia. Ciò che accade negli allevamenti di vitelli da latte è a dir poco sconcertante, oltre ad essere totalmente contro natura
All’interno delle piccole celle di plastica, acquistabili facilmente anche online, i piccoli vitelli non hanno nemmeno lo spazio per girarsi e sono costretti a rimanere nella stessa posizione per ore. Con difficoltà entrano nelle gabbie di plastica e quando ci riescono, spesso finiscono per ferirsi la schiena. Una crudeltà inaudita che è stata più volte filmata e denunciata dalle organizzazioni, tra cui Animal Equality, che si occupano di tutela degli animali.
https://www.greenme.it/informarsi/animali/verita-industria-vitelli-latte/
Sulla Terra ci sono ben 7,6 miliardi di persone: tutta questa umanità rappresenta però appena lo 0,01% della vita sul Pianeta. Pochi, in percentuale, eppure pare che abbia causato, insieme alle precedenti generazioni di Sapiens, la scomparsa dell'83% dei mammiferi selvatici e della metà delle piante.
Complessivamente, la biomassa terrestre è stata stimata in 550 gigatonnellate (Gt), una misura che fa riferimento alla quantità di carbonio contenuto nell'intera comunità di viventi. A partire da questi dati è stata poi elaborata una stima della distribuzione della biomassa nei vari ecosistemi del nostro pianeta.
I batteri, come si sospettava, rappresentano una fetta importante del totale - il 13% - ma sono le piante le signore incontrastate: nel loro insieme, costituiscono l'82% della materia vivente. Tutto ciò che resta, dagli insetti ai funghi, dai pesci ai mammiferi, messi insieme non fanno che un misero 5%. Un'altra sorpresa è che la maggior parte delle forme di vita (l'86%) vive sulla terraferma, e il 13% (un ottavo del totale: si tratta soprattutto di batteri) nelle profondità del suolo. Gli oceani, che pensavamo così ricchi di vita, ospitano appena l'1% della materia vivente.
Benché insignificante, in termini di rappresentanza, l'uomo è senza dubbio un abile sfruttatore di risorse: la sua presenza ha modificato radicalmente gli equilibri tra specie viventi. Un esempio: soltanto il 30% degli uccelli del pianeta è costituito da specie selvatiche; il restante 70% è pollame da allevamento.
Tra i mammiferi, le proporzioni fanno ancora più impressione: il 60% sono animali da allevamento (bovini e suini), il 36% sono umani e il 4% appena mammiferi selvatici.
La diffusione dell'agricoltura e delle attività industriali ha lasciato sul pianeta soltanto un sesto dei mammiferi selvaggi originari, cancellato l'80% dei mammiferi marini e il 15% della biomassa ittica. Nonostante l'ingombrante influenza, in termini di massa totale l'Homo sapiens impallidisce in confronto ai "coinquilini" terrestri: i virus (e i vermi) sono 3 volte più abbondanti di noi, i pesci 12 volte più presenti, insetti e crostacei 17 volte, i funghi 200 volte, i batteri 1.200 e le piante 7.500 volte.
Focus
Out
of a cell into his darkened space -
The end at twenty-five!
My
tongue could not speak what stirred within me,
And the village
thought me a fool.
Yet at the start there was a clear vision,
A high and urgent purpose in my soul
Which drove me on
trying to memorize
E. Lee Masters, Spoon river, Frank Drummer (Un Matto)
Adamsberg rifletteva in maniera vaga. Lui non rifletteva mai a fondo. Non aveva mai capito cosa accadesse quando le persone si prendevano la testa tra le mani e dicevano: “Su, riflettiamo”. Quel che si ordiva nel loro cervello, come facessero per organizzare idee precise, indurre, dedurre e concludere, era per lui un assoluto mistero. Costatava che ciò produceva risultati innegabili, che dopo quelle operazioni le persone compivano scelte e pensava ammirato che a lui mancasse qualcosa. Ma quando lui stesso lo faceva, quando si sedeva e si diceva “Riflettiamo”, nella sua testa non succedeva niente. Anzi, era proprio in quei momenti che lui conosceva il nulla. Adamsberg non si accorgeva mai di riflettere e, se gli capitava di rendersene conto, subito la cosa si bloccava. Perciò tutte le sue idee, tutti i suoi propositi e tutte le sue decisioni, non sapeva mai da dove venissero
Fred Vargas, L’uomo dei cerchi azzurri
Prima
di tutto l’amore è un’esperienza comune tra due persone; ma
l’essere un’esperienza comune non significa che sia simile. C’è
chi ama e chi si lascia amare: due persone che vengono da regioni
diverse. Spesso l’amato rappresenta solo lo stimolo per tutto
l’amore represso che fino ad oggi, da tanto tempo, ha atteso
l’appello. Ed ogni amante in certo modo lo sa. In cuor suo sente
che il proprio amore è solitario. Arriva così a conoscere una
nuova, singolare solitudine ed è questa consapevolezza a farlo
soffrire. Per lui ormai c’è una sola cosa da fare: albergare in sé
il proprio amore come meglio può; creargli un intero, nuovo mondo
interiore, un mondo strano ed intenso, completo in sé. Si aggiunga
qui che l’amante di cui parliamo non è necessario sia un
giovanotto il quale fa risparmi per l’anello nuziale; potrà essere
uomo, donna, bambino, qualsiasi creatura umana sulla terra. Anche
l’amato può avere qualsiasi figura. La persona più impensata sarà
stimolo all’amore. Si può essere un tentennante bisavolo e amare
ancora una ragazza sconosciuta, vista per le strade di Cheehaw un
pomeriggio vent’anni prima. Il predicatore amerà una donna caduta.
Si potrà amare una creatura falsa e grossolana, votata ai vizi
peggiori e chi l’ama se ne accorgerà benissimo, come chiunque
altro, senza che ciò alteri di un atomo l’evoluzione del suo
amore. La persona più mediocre sarà oggetto di un amore furibondo,
eccezionale e splendido come i velenosi gigli di campo. L’uomo
buono susciterà una passione violenta e insieme degradante, ed un
pazzo frenetico farà nascere nell’animo un semplice e tenero
idillio. Il valore dunque e la qualità dell’amore vengono
determinati unicamente da colui che ama. Per questo motivo si
preferisce, nella maggioranza, amare più che essere amati. Quasi
tutti vogliono amare. E la cruda verità è che per molti la
condizione dell’essere amati riesce intollerabile.
L’amato
teme ed odia colui che lo ama, e a ragione. Perché l’amante cerca
sempre di mettere a nudo l’oggetto del proprio amore; e richiede
ogni possibile genere di rapporto con l’amato, anche se
l’esperienza gli porterà solo dolore.
Carson McCullers, La ballata del caffè triste
Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi, dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere la piazza inclinata di Arezzo, la conchiglia del Campo di Siena (...). Quando sarò vecchio, vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha eguali al mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che amo.
Albert Camus, Taccuini