Per me la fotografia è arte dell’osservazione. Si tratta di trovare qualcosa di interessante in un luogo ordinario. Ho scoperto che ciò ha poco a che fare con le cose che osservi e tutto a che fare con il modo in cui tu le vedi.
Non mi interessano i paesaggi ma la gente. Voglio che la gente reagisca alle mie foto emotivamente e non cerebralmente. Non mi importa se dopo le mie foto vengono analizzate, ma voglio che prima ci sia un contatto emotivo.
I cani, «sono un soggetto facile. I cani sono dappertutto, si mettono in posa volentieri e non devi fargli firmare la liberatoria».
Io sono antica, dicevo a un amico qualche giorno fa, senza riuscire a spiegargli in quel momento in che senso lo intendessi. Non è l’identificarsi col tradizionalista, perché la mia è anche accoglienza del nuovo, non è avversione indiscriminata al progresso, perché in fondo di questo faccio uso.
Ma è il modo di rapportarmi a tutto questo che mi fa antica. Perché il mio concetto di tempo è un concetto recuperato dall’antico.
Darsi tempo, principalmente, non lasciarsi mangiare e consumare dalle cose.
Questa è un’epoca che fagocita tutto senza dichiararlo apertamente. Io rifiuto di essere fagocitata dal superfluo che sembra diventato oggigiorno la necessità, la priorità, la norma.
Essere antichi, per come lo intendo io, significa privilegiare la qualità della vita rispetto alla quantità indifferenziata dell’abbondanza.
Qualità significa conoscere, consumare senza spreco, non abbuffarsi né di oggetti né di cibo. Saper scegliere le cose di cui abbiamo veramente bisogno, senza sottometterci alle mode, all’usa e getta che altro scopo non ha se non quello di favorire l’ennesimo ricambio di quanto si produce, nell’ottica di un eterno temporaneo consumo, di una sempre accresciuta produzione, e per contro, di un costante aumento nello svilimento e sfruttamento della manodopera impiegata in paesi resi sempre più poveri.
Mi sento antica perché voglio assaporare, gustare la genuinità e non mi accontento della sua rappresentazione puramente virtuale. Perché conosco quel che la mia terra produce di buono e so dargli valore.
Antico è il mio bisogno di affidarmi a un’educazione fondamentale su quanto mi è utile oltre che piacevole.
Antico è il rifiuto all’omologazione propugnata e diffusa da discutibili modelli, da discutibilissimi linguaggi e personaggi dei mass media.
Antico è anche il tempo selezionato, e perciò ridotto, dedicato a queste attività, perché è tempo usato contro il tempo che ci è dato per vivere.
Significa, essere antica, anche uscirsene senza portarsi necessariamente il cellulare, senza essere per forza collegati e rintracciabili da chiunque ed in qualunque posto, in qualsiasi momento, non piegarsi all’insensata necessità di controllare 300 volte al giorno il telefonino o di lasciarlo come un bicchiere, un piatto, accanto a te sul tavolo del bar o del ristorante.
Antico è ritagliarsi uno spazio privato, difenderlo e arricchirlo di interessi che ti gratificano perché ti formano.
Antico è camminare e mantenere il corpo in attività, è posare lo sguardo sempre fresco e nuovo su oggetti e persone vedendole e ascoltandole con partecipazione.
Significa saper distinguere i profumi, riconoscere i fiori, gli alberi, i venti, il valore di ogni singola parola, di ogni atto disinteressato d’amicizia.
È l’amore del bello naturale, dei veri colori di un tramonto, ad esempio, di per sé già qualcosa di insostituibile e irrecuperabile.
Di uomini e donne che fanno un uso discreto della loro bellezza e un uso quotidiano e naturale della loro gentilezza.
Quest’antico è rivoluzionario, è ancora il no del ribelle di Camus, è memoria che non sbiadisce con un colpo di spugna, è il no al signorsì nei confronti del progresso consumistico e omologante che si è impadronito già delle vite e principalmente delle vite di oggi.
E non deve spaventare questa solitudine. La solitudine di trovarsi nella direzione opposta a quella imperante. Che sia questo il sensato, il reale e l’umanissimo progresso.
Filomena Shedir Di Paola
La domanda non è “SE”, è “QUANDO”
Mentre
ci trastulliamo con i risultati elettorali e con il totoministri la
guerra va avanti, e lo fa mostrando senza più remore ciò che molti
avevano intuito fin dal primo giorno: i pugili sul ring si chiamano
Joe Biden e Vladimir Putin, noi siamo il ring.
Ora lo sappiamo o
dovremmo saperlo perché mentre i due pugili saltellavano senza
neppure sfiorarsi raccogliendo applausi e fischi dalle rispettive
tifoserie ad essere calpestati dai loro piedi come le tavole di un
ring siamo noi, Ucraini in primis e a seguire tutti i cittadini
dell'Unione Europea.
Ho detto i cittadini, non i governi che
sull'incontro di boxe hanno scommesso forti somme politiche ed
economiche. Ai governi dell'indipendenza dell'Ucraina non importa un
accidente, non più di quanto importasse loro dell'Afganistan, della
Georgia, dei Curdi, degli Yemeniti o di chiunque altro sia stato
ridotto in poltiglia dalle loro precedenti scommesse.
Ora Biden
ha sferrato il primo pugno come aveva annunciato il 7 febbraio alla
Casa Bianca prima che la guerra incominciasse durante un incontro
bilaterale col premier tedesco Scholz “Se i Russi invadono
azzereremo il Nord Stream”. Lo ha fatto, e lo ha fatto nel preciso
momento in cui la Germania ha mostrato il primo segno di cedimento
nella guerra santa contro il demonio.
Se siete tra quelli che
pensano che sia stato Putin a far saltare l'oleodotto che gli è
costato 10 miliardi e che versava quotidianamente un fiume di denaro
nelle sue casse avete solo perso tempo a leggere questo post, e temo
che altro ne perderete nel commentarlo. E’ davvero ridicolo, molto
al di sotto del livello minimo di intelligenza, pensare che Putin
abbia fatto irreparabilmente saltare per aria una sua infrastruttura
preziosa quando gli sarebbe bastato chiudere il rubinetto.
Con
quelle esplosioni la guerra è uscita dai confini dell'Ucraina, che
arrivi anche da noi è, salvo miracoli in cui non credo, soltanto
questione di tempo.
Mario Piazza
Sei bella
come un diamante
bella da guardare
come un diamante
ma per favore lasciami andare
Che potenza, che splendore
bellissima
come un diamante
ma solo una pietra
Tutti noi abbiamo piccole illusioni solipsistiche, spaventose intuizioni di una nostra assoluta singolarità: crediamo di essere gli unici della casa a riempire il contenitore dei cubetti di ghiaccio, gli unici a svuotare la lavastoviglie dai piatti puliti, gli unici a fare ogni tanto pipì nella doccia, gli unici ad avere un piccolo tic alle palpebre al primo appuntamento; di essere gli unici a prendere la nonchalance tremendamente sul serio; di essere solo noi a dare alle suppliche l'aspetto della cortesia; di essere solo noi a sentire il gemito patetico nello sbadiglio di un cane, il sospiro senza tempo nell'apertura di un barattolo ermeticamente sigillato, la risata sputacchiata qua e là in un uovo che frigge, il lamento in re minore nel rombo di un aspirapolvere; di essere solo noi a provare quando il sole tramonta lo stesso tipo di panico che un bimbo al primo giorno di scuola prova quando la mamma si allontana. Di essere solo noi ad amare i solo-noi. Di essere solo noi ad aver bisogno dei solo-noi.
David Foster Wallace, Verso Occidente l'Impero dirige il suo corso
È dall’infanzia che cerco
di raffigurare il mio paese.
Ho disegnato case
ho disegnato tetti
ho disegnato volti.
E minareti dorati ho disegnato
e strade deserte
dove sdraiarsi per lenire la stanchezza.
Ho disegnato una terra chiamata metafora,
la terra degli arabi.
È dall’infanzia che cerco di disegnare una terra
che mi tratti con gentilezza
se infrango il vetro della luna
e mi ringrazi se scrivo versi d’amore
e se inseguo l’amore mi lasci fare
come un uccello, sugli alberi.
Cerco di disegnare una terra
nella quale gli uomini ridano … e piangano come gli altri uomini.
Cerco di liberarmi dai miei modi di dire
e dalla maledizione del soggetto e del complemento oggetto,
di scrollarmi la polvere dalle spalle
di lavarmi il viso con acqua piovana.
Cerco con l’autorità della sabbia di abbandonare il campo …
Addio Quraish
Addio Kulayb
Addio Mudar .
Cerco di disegnare una terra
con un parlamento di gelsomini
con un popolo schiavo del gelsomino
le cui colombe si addormentino sul mio capo
i cui minareti piangano nei miei occhi.
Cerco di disegnare una terra
che sia amica della mia poesia
e non si intrometta tra me i miei pensieri
nella quale non marcino gli eserciti
sulla mia fronte.
Cerco di disegnare una terra
che mi ricompensi se brucio i miei abiti
e mi perdoni
se straripa il fiume della mia follia.
Cerco di disegnare una città dell’amore
priva di vincoli
dove le donne non vengano immolate
e il loro corpo addomesticato.
Ho viaggiato a sud
ho viaggiato a nord
ma inutilmente.
Il caffé di tutti i locali ha lo stesso aroma
tutte le donne quando si spogliano
hanno lo stesso profumo.
Tutti gli uomini della tribù non masticano il cibo
ma inghiottono le donne
in un solo boccone.
Ho cercato sin dall’inizio
di non somigliare ad alcuno.
Ho sempre respinto i discorsi in scatola
e rifiutato qualsiasi idolo.
Ho tentato di bruciare tutte le parole di cui mi sono rivestito:
a volte le poesie sono una tomba
e le lingue un sudario.
Ho disegnato l’emorragia dei bar
ho disegnato la tosse delle città
e ho preso appuntamento con l’ultima donna
e tuttavia … sono arrivato a tempo scaduto.
Cerco di disegnare una terra
dove il mio letto sia solido
e solida la mia testa
perché possa dalle navi avvistare la costa.
Ma loro … mi hanno requisito la scatola dei colori
e non mi permettono
di raffigurare il volto del mio paese.
Nizar Qabbani, Raffigurazione del tempo grigio
La notte del primo gennaio del 1599, mentre si trovava nel letto di una prostituta, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, pittore e uomo iracondo, sognò che Dio lo visitava. Dio lo visitava attraverso il Cristo, e puntava il dito su di lui. Michelangelo era in una taverna, e stava giocando di denaro. I suoi compagni erano dei furfanti, e qualcuno era ubriaco. E lui, lui non era Michelangelo Merisi, il pittore celebre, ma un avventore qualsiasi, un malandrino. Quando Dio lo visitò stava bestemmiando il nome di Cristo, e rideva. Tu, disse senza dire il dito del Cristo. Io?, chiese con stupore Michelangelo Merisi, io non sono un santo per vocazione, sono solo un peccatore, non posso essere scelto. Ma il volto del Cristo era inflessibile, senza scampo. E la sua mano tesa non lasciava spazio a nessun dubbio. Michelangelo Merisi abbassò la testa e guardò il denaro sul tavolo. Ho stuprato, disse, ho ucciso, sono un uomo con le mani lorde di sangue. Il garzone dell’osteria arrivò portando fagioli e vino. Michelangelo Merisi si mise a mangiare e a bere. Tutti erano immobili, vicino a lui, solo lui muoveva le mani e la bocca come un fantasma. Anche il Cristo era immobile e tendeva la sua mano immobile col dito puntato. Michelangelo Merisi si alzò e lo seguì. Sbucarono in un vicolo sudicio, e Michelangelo Merisi si mise a orinare in un canto tutto il vino che aveva bevuto quella sera. Dio, perché mi cerchi?, chiese Michelangelo Merisi al Cristo. Il figlio dell’uomo lo guardò senza rispondere. Passeggiarono lungo il vicolo e sbucarono su una piazza. La piazza era deserta. Sono triste, disse Michelangelo Merisi. Il Cristo lo guardò e non rispose. Si sedette su una panchina di pietra e si tolse i sandali. Si massaggiò i piedi e disse: sono stanco, sono venuto a piedi dalla Palestina per cercarti. Michelangelo Merisi stava vomitando appoggiato al muro di un cantone. Ma io sono un peccatore, gridò, non devi cercarmi. Il Cristo si avvicinò e gli toccò un braccio. Io ti ho fatto pittore, disse, e da te voglio un dipinto, dopo puoi seguire la strada del tuo destino. Michelangelo Merisi si pulì la bocca e chiese: quale dipinto? La visita che ti ho fatto stasera nella taverna, solo che tu sarai Matteo. D’accordo, disse Michelangelo Merisi, lo farò. E si girò nel letto. E in quel momento la prostituta lo abbracciò russando.
Antonio Tabucchi, Sogno di Michelangelo Merisi
L’ipocondria è una malattia fondata sull’equivoco. Il corpo dice una cosa: ho una fitta alle costole perché ho preso freddo, e l’io ne intende un’altra: il sospetto di un infarto. Dunque, si tratta di un equivoco che si produce all’interno della stessa persona e possiamo considerarlo come il prototipo di tutti gli equivoci in cui siamo quotidianamente immersi. Tutta la cosiddetta vita amorosa non è altro che un reticolo fittissimo di equivoci. Ovviamente più ne siamo vittime e più cerchiamo di affrancarcene. Qui le strade sono due. Il ritiro dell’investimento emotivo sugli altri secondo un modello narcisistico che espone a tante malattie, tra cui l’ipocondria. Oppure, il reinvestimento su altri oggetti che possano risultare più appaganti. Tale speranza è inesorabilmente esposta a essere delusa, ed ecco che ci ritroviamo in una bizzarra tenaglia: o si dà l’equivoco con noi stessi o si ha l’equivoco con gli altri. E se anche questa tenaglia in determinati momenti dovesse risultare inattiva ecco che emerge quello che potremmo chiamare l’equivoco di fondo, quello con la realtà. La sottile meraviglia della vita quotidiana diventa praticamente impercepibile se non quando ci accade un incidente e osserviamo gli altri che questo incidente non hanno subito. In questo caso ci pare di comprendere che è in funzione un perenne disturbo nel nostro rapporto con la realtà, un disturbo che porta a considerarla come una sorta di sacca da riempire o da svuotare a seconda dei casi. Invece, la realtà è una superficie liscia, ubiqua, a cui semplicemente apparteniamo. Da questo punto di vista l’ipocondria è una forma grossolana di inappartenenza alla realtà. Stiamo davanti a essa come davanti a un vaso di Pandora da cui prima o poi può uscire la sorpresa fatale. L’equivoco consiste nel non considerare che la sorpresa è sempre in essere, che l’apparire del sole o alzare un braccio o ascoltare il canto degli uccelli, sono fusi meravigliosamente in un unico immenso affresco.
Dio e il nulla non sono i padrini della vita e della morte e noi non siamo figli dell’uno o dell’altro. Forse l’uomo dei prossimi decenni è chiamato a fondere in sé l’elemento religioso e quello nichilista dentro la semplice, sottile meraviglia della vita quotidiana. La scrittura è l’ago per cucire l’intreccio, ma il filo dobbiamo metterlo noi; il filo è il nostro corpo e il suo generoso dispendio. Ancora una volta siamo ben lontani dall’ottica ipocondriaca che considera il corpo merce da preservare. L’ipocondriaco si comporta come se volesse costruire una cassaforte intorno al corpo, illudendosi di poterne uscire a piacimento. Ancora un equivoco. Nel momento in cui non facciamo dono di noi stessi, in quel preciso momento siamo perduti. Non c’è bisogno di pensare a perdite future.
Franco Arminio, Circo dell’ipocondria
Ti voglio dedicare una poesia
adesso che sono vivo
e posso vederti, posso abbracciarti.
Tu non mi fai recintare la luce,
non mi fai dire cose già concluse.
A volte mi chiedo
che amicizia sarebbe la nostra
se tu non fossi mio figlio.
Ti scrivo per dirti
che il mio amore per te è scandaloso
e voglio che sia chiaro a tutti,
voglio che sia detto senza reticenza.
Io ti dono questo mio stare sparso
e conficcato dentro uno spavento
che non passa.
Averti vicino è un soffio di bene,
è qualcosa di più
della paura che abbiamo in ogni cuore.
Come fai ad essere così forte
tu che sei figlio di un tremore?
Franco Arminio, Lettera a Livio
Io non vorrei vivere come se fossi immortale. La morte non mi fa paura. Ho paura della sofferenza. Della vecchiaia, anche se ora meno, vedendo la vecchiaia serena e bella di mio padre. Ho paura della debolezza, della mancanza di amore. Ma la morte non mi fa paura. Non mi faceva paura da ragazzo, ma allora pensavo fosse solo perché mi sembrava lontana. Ma ora, a sessant’anni, la paura non è arrivata. Amo la vita, ma la vita è anche fatica, sofferenza, dolore. Penso alla morte come a un meritato riposo. Sorella del sonno, la chiama Bach nella meravigliosa cantata BWV 56. Una sorella gentile che verrà presto a chiudere i miei occhi e accarezzarmi la testa.
Giobbe è morto quando era “sazio di giorni”. Espressione bellissima. Anch’io vorrei arrivare a sentirmi “sazio di giorni” e chiudere con un sorriso questo breve cerchio che è la vita.
Carlo Rovelli, L’ordine del tempo
La
cucina italiana, del resto, non è affatto unitaria. Tra Nord e Sud
ci sono grandi differenze. Nel Sud il mangiare è più dionisiaco.
Laggiù ci sono spezie eccitanti, per esempio una certa varietà di
peperoncino. È tutt’altra cosa dal pepe: lo si trova anche nei
paesi arabi. Nell’Italia del Nord è praticamente sconosciuto. La
mia – diciamo – vocazione di autodidatta gastronomico verte
intorno al peperoncino. Per me ha qualcosa di fortemente magico.
Se
lei soffrisse di stati ansiosi – cosa che ovviamente mi auguro
non sia–, le consiglio di mangiare peperoncino. Giova
incredibilmente, le assicuro. È una cosa che appartiene al mondo
gastronomico del Sud, non del Nord. Il modo di mangiare dell’Italia
meridionale è un rito in tutto e per tutto privato. Al Nord si tende
sempre alla mensa sociale. Se lei guarda un ristorante di Milano poi
uno di Roma e poi di Napoli, la cosa le si chiarisce. A Milano, il
ristorante ha sempre un che di una ditta o di un’associazione. Lì
si incontrano le vittime del lavoro. A Roma nient’affatto, può
“portare” qualcosa tutt’al più dal punto di vista psicologico.
E questo vale in genere per il Sud, benché il Sud sia povero. In
Calabria, ad esempio, ho mangiato cose del tutto insolite, semplici,
ma di una pienezza di gusto addirittura magica. È stato
affascinante, quasi inquietante. ricordo ancora oggi l’odore di un
certo tipo di pomodori. Giù a Roma non li si trova più. Questo
pomodoro era l’idea commestibile del sole. Mangiarsi il sole, ecco
cos’è.
Giorgio Manganelli, La penombra mentale
Lupi.
I primi 3 sono i vecchi e i malati, camminano davanti per stabilire il ritmo di tutto il branco. I SEGUENTI 5 sono i più forti e i migliori, hanno il compito di proteggere il fronte in caso di attacco. Al centro ci sono gli altri membri del branco, sempre protetti da qualsiasi attacco. Poi i 5 in fila anche loro tra i più forti stanno seguendo, proteggendo il lato posteriore.
L'ultimo è solo, l'alfa. Il leader. Controlla tutto sul retro, per assicurarsi che nessuno venga lasciato indietro. È sempre pronto a correre in qualsiasi direzione per proteggere, e serve come ‘guardia del corpo’ per tutto il gruppo.
Nel caso qualcuno volesse sapere cosa significa davvero essere un leader. Non si tratta di stare davanti. Significa prendersi cura della squadra.
E c’è che vorrei il cielo elementare
azzurro come i mari degli atlanti
la tersità di un indice che dica
questa è la terra, il blu che vedi è mare
Pierluigi Cappello
Lui
ti offre la sua ultima carta
il suo ultimo prezioso tentativo di
stupire
quando dice "È quattro giorni che ti amo,
ti
prego non andare via, non lasciarmi ferito"
E non hai
capito ancora come mai
gli hai lasciato in un minuto tutto quel
che hai
però stai bene dove stai
C’è una differenza sostanziale tra osservazione e contemplazione. Quest’ultima avviene quando coesistono tre elementi: una mente silenziosa, assenza di giudizio e assenza di definizione. Contemplare è osservare attraverso il silenzio della mente, senza che nessun pensiero né preoccupazione ci distolga da ciò che osserviamo. Normalmente la mente è occupata da migliaia di suggestioni, preimmagini, considerazioni e idee. Il celebre psicologo e filosofo statunitense William James sosteneva: “Molte persone credono di pensare, ma in realtà stanno solo riorganizzando i loro pregiudizi”. Quando osserviamo qualcosa, la nostra mente filtra l’oggetto attraverso una serie di informazioni: esso viene interpretato in base a conoscenze, credenze e codici acquisiti che costituiscono ciò che crediamo essere la verità. Contemplare non significa solo sospendere pregiudizi e filtri attraverso cui interpretiamo ciò che osserviamo, ma anche sospendere il flusso di pensieri che costantemente abita nella mente. Il dialogo interiore sarà annullato e, con esso, ogni giudizio e definizione di ciò che si sta osservando. Nei bambini piccoli esiste uno stato pressoché costante di contemplazione. Il silenzio è una porta di accesso a questo stato indefinito, senza forme né limiti. Guardare le cose o guardarle attraverso il silenzio cambia profondamente l’esperienza. L’essere umano adulto comune vive in uno stato di costante definizione: definisce incessantemente se stesso e tutto ciò con cui entra in contatto. Alla base di questa compulsione vi è una radicale necessità di controllo. L’ignoto spaventa, e siamo più portati a condannare ciò che non conosciamo piuttosto che a sforzarci di comprenderlo. Se è vero che definire ci fornisce l’illusione di conoscere, è anche vero che equivale a limitare, a chiudere in uno spazio noto ciò che osserviamo. Contemplare è lasciare libero da ogni definizione l’oggetto osservato, sia esso qualcosa di concreto o astratto, come il vuoto, la luce, un’idea.
Franco Berrino, Daniel Lumera, La via della leggerezza. Perdere peso nel corpo e nell'anima