lunedì 21 gennaio 2013

Silenzio


Amare un amante, generare un figlio, scrivere una poesia, comprendere una legge scientifica, stabilire una regola di convivenza, e in misura minore e forma forse degradata anche perseguire la ricchezza e il successo, acquisire importanza agli occhi degli altri, dialogare su facebook o giocare a flipper in un bar, sono tutti atti attraverso i quali cerchiamo di dare un senso alla nostra vita. Ogni nostro atto tende a dare un senso alla nostra vita, e dare un senso alla nostra vita significa infine risolvere quell’enigma. Significa provarsi a dire l’indicibile, significa far parlare il silenzio.
Di silenzio ne è restato assai poco nel nostro mondo, che per ragioni biologiche, antropologiche, tecnologiche, si va affollando sempre più di emittenti sonori, di generatori di anti-silenzio. Anche il computer davanti a cui stiamo cercando la concentrazione per scrivere queste righe, ci ricorda la sua presenza materica nel mondo con beep e lievi pulsazioni, o solo frusciando e spazzolando impercettibilmente i suoi magneti. Nel contemporaneo persino le immagini, le forme e gli spazi sono sonorizzati dalla tecnologia, che li fa parlare o rumoreggiare, talvolta in utili applicazioni come i convertitori acustici per non vedenti, o i segnalatori dei macchinari. Il silenzio è diventato una specie di disvalore, di segno di morte e pochezza, qualcosa che assomiglia più al nulla, che al vuoto, cioè un nulla provvisto di spazio e presenza, per ritornare a una distinzione di Agostino. Appare difficile oggigiorno stabilire un rapporto totale e continuativo col silenzio come pienezza, come sostanza densa prodotta dall’intenzione di tacere, come attenzione, come sospensione e interruzione del troppo, del superfluo, del già detto o del perfettibile, il silenzio come “campo di forze dell’esistere puro”. L’uomo contemporaneo non sa che “ Chi tollera i rumori è già un cadavere”, come lapidariamente sentenzia Ceronetti, né riflette sulla natura escrementizia del rumore, che dovrebbe rendere sconveniente l’atto di emetterlo in pubblico.
Più che la purezza intatta del silenzio, più che la vergine tabula rasa in cui è possibile ascoltare gli impercettibili segnali che provengono dal profondo di noi stessi e dell’altro, la nostra epoca sembra apprezzare lo sguaiato della comunicazione ininterrotta, querula, sforzata, survoltata, quasi automatica, che la facilità dei nuovi media induce o produce. I messaggi sono sempre più numerosi, e bisogna sempre più rafforzare il segnale, aumentare il volume e la frequenza delle voci per farsi ascoltare. Ma quel che c’è di essenziale in noi, quello che attiene appunto alla sfera dell’indicibile, e va indovinato e quasi suscitato a partire da minimi segni, “divinandolo da un fondo enigmatico e buio” con attenzione amorosa e lenta, è difficile comunicarlo in questo modo.

(Livio Borriello,  da Dire il non dire)
 




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