Questi ultimi
anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle
superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i
tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un
po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se n’è andata,
è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il
tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e
nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi e
rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di
casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi
genitori tornino e ristabiliscano un po’ d’ordine, cazzo… Non è una similitudine
perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e
intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il
sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo
che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del
postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna
baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati
orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i
genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire:
c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che
abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto,
quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più
- e che noi dovremo essere i genitori.
David Foster Wallace, in
L. McCaffery, An Interview with David Foster Wallace, “Review of
Contemporary Fiction”, vol. XIII, n.2, Summer 1993
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