mercoledì 12 giugno 2013

Credere


Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo. L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione - perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è il mio - è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’ uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi. Resta però fondamentale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità.
La mia è una religiosità del dubbio, anziché delle risposte certe. Io accetto solo ciò che è nei limiti della stretta ragione, e sono limiti davvero angusti: la mia ragione si ferma dopo pochi passi mentre, volendo percorrere la strada che penetra nel mistero, la strada non ha fine. Più noi sappiamo, più sappiamo di non sapere. Qualsiasi scienziato ti dirà che più sa e più scopre di non sapere. Credevano di sapere di più gli antichi, che non sapevano niente al confronto di quello che sappiamo noi. Abbiamo allargato enormemente lo spazio della nostra conoscenza, ma più lo allarghiamo più ci rendiamo conto che questo spazio è grande. Cos’ è il cosmo? Cosa sappiamo del cosmo? Come e perché il passaggio dal nulla all’essere? È una domanda tradizionale, ma io non ho la risposta: perché l’essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda ultima, se non per fede. Secondo Severino l’essere è infinito, l’ essere c’è. Ma non è che così siamo in grado di capire cosa c’era prima. È impossibile. E di fronte alle domande cui è impossibile dare una risposta - perché di questo sono certo: non posso dare una riposta, benché appartenga ad una umanità che ha realizzato progressi enormi - mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo. E negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole. Probabilmente dipende dalla mia incapacità di andare al di là. Ma quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata - e umiliata. So di non sapere. Questo io chiamo “la mia religiosità”.
(…)
Qualcuno dice: “sono ateo”, ma io non sono sicuro di sapere cosa significa. Penso che la vera differenza sia tra chi, per dare un senso alla propria vita, si pone con serietà e impegno queste domande, e cerca la risposta, anche se non la trova, e colui cui non importa nulla, a cui basta ripetere ciò che gli è stato detto fin da bambino. La risposta della fede è consolatoria. Ma le religioni non hanno solo una funzione consolatoria. Hanno anche la funzione di “rivelare” verità su problemi cui il comune sapere non arriva: la creazione, l’immortalità dell’anima. Risposte consolatorie, ma non solo: risposte a domande che ciascuno si pone sulla soglia della morte. Io la mia risposta l’ho data, con le poche “convinzioni” che ho. Perché le mie sono le “convinzioni” di un uomo che costantemente passa dal dubbio alla verità e di nuovo al dubbio. Io non credo. Arrivato ad un’ età in cui si sente che la fine è vicina, se devo ascoltare me stesso, e dare una risposta personale, l’unico desiderio che ho, l’unico bisogno, non è certo quello dell’immortalità, è quello di morire in santa pace: il riposo eterno è ciò in cui spero. Non voglio risvegliarmi.

Norberto Bobbio, Perché non riesco a credere (da La Repubblica” 30 aprile 2000)


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