Se il libro che
leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Noi abbiamo
bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto
male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo
respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio. Un libro deve
essere la scure per il mare gelato dentro di noi.
Franz Kafka
Se ho capito bene, lei mi chiede perché
non abbia scelto semplicemente il silenzio, invece di girargli attorno, e mi
rimprovera di profondermi in lamenti quando farei meglio a tacere. Tanto per
cominciare, non tutti hanno la fortuna di morire giovani. Il mio primo libro
l'ho scritto in rumeno, a ventun anni, ripromettendomi per il futuro di non
scrivere più niente. Poi ne ho scritto un altro, seguìto dallo stesso
proposito. La commedia si è ripetuta per più di quarant'anni. Il motivo? Il
motivo è che lo scrivere, per poco che valga, mi ha aiutato a passare da un
anno all'altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono
superate. Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da
un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche. Le sembrerà
ridicolo, eppure è verissimo. Un libro è la tua vita, o una parte della tua
vita che ti rende estraneo. Ci si libera contemporaneamente di tutto quello che
si ama e soprattutto di tutto quello che si detesta. Le dirò di più: se non
avessi scritto, sarei potuto diventare un assassino. L'espressione è una
liberazione. Le consiglio di provare questo esercizio: quando odia qualcuno,
quando le viene voglia di farlo fuori, prenda un pezzo di carta e scriva che X
è un porco, un bandito, un farabutto, un mostro. Si renderà subito conto di
odiarlo meno. E proprio quello che ho fatto io. Ho scritto per ingiuriare la
vita e per ingiuriare me stesso. Il risultato? Mi sono sopportato meglio, e ho
sopportato meglio la vita.
Lei ha scritto: «Un libro
deve frugare nelle ferite, anzi deve allargarle. Un libro deve essere un
pericolo».
Io credo che un libro debba
essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del
lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di
fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non
dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche
maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge
un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione.
Il motivo? Ebbene, io non mi preoccupo molto dell'utilità di quanto scrivo,
perché veramente non penso mai al lettore: scrivo per me, per liberarmi delle
mie ossessioni, delle mie tensioni e nient'altro. (…) Io non scrivo con lo
scopo di «fare un libro», perché venga letto. No, scrivo per disfarmi di un
peso. Soltanto dopo, meditando sulla funzione dei miei libri, dico tra me che
dovrebbero essere come una ferita. Un libro che lascia il lettore uguale a com'era
prima di leggerlo è un libro fallito. (…)
Io non sono pessimista, ma
violento... è questo che rende vivificante la mia negazione. Infatti, quando
prima parlavamo di ferita, non consideravo la cosa in una luce negativa: ferire
qualcuno non equivale affatto a paralizzarlo! I miei libri non sono né
depressivi né deprimenti. Li scrivo con rabbia e con passione. Se potessero
essere scritti a freddo, allora sì che sarebbe pericoloso. Ma non posso
scrivere a freddo, sono come un malato che, in ogni circostanza, supera
febbrilmente la propria infermità. La prima persona che ha letto il «Sommario
di decomposizione», ancora in manoscritto, è stato il poeta Jules Supervielle.
Era già molto anziano, profondamente incline alla depressione, e mi ha detto:
«È incredibile quanto mi abbia stimolato il suo libro». In questo senso, se
vuole, sono simile al diavolo, che è un essere attivo, un negatore che mette in
moto le cose...
Emile
Cioran, Intervista con Fernando Savater